Clean Deal, l’Ue ci mette 100 miliardi ma è presto per dire se funzionerà
Il nuovo piano per l’economia pulita arriva dopo anni di polemiche furibonde sulle regole varate dalla precedente versione dell’esecutivo (il famigerato Green Deal), giudicate troppo restrittive e “verdi” da buona parte delle imprese
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C’è una scommessa matematica nel Clean Industrial Deal proposto dalla Commissione Ue: l’ambizione che cambiando i fattori non cambi il prodotto.
Il nuovo piano per l’economia pulita arriva dopo anni di polemiche furibonde sulle regole varate dalla precedente versione dell’esecutivo (il famigerato Green Deal), giudicate troppo restrittive e “verdi” da buona parte delle imprese e contestate dai partiti della destra sovranista.
La presidente von der Leyen prova a rimescolare le carte, salvando l’obiettivo climatico della decarbonizzazione entro il 2050 e il traguardo intermedio della riduzione del 55% delle emissioni serra entro il 2030. Allo stesso tempo, propone di semplificare le procedure e allargare le maglie degli aiuti di Stato, quindi promette una cascata di euro per le aziende toccate, 100 miliardi di soldi pubblici in dieci anni che «potrebbero diventare 400 con la partecipazione dei privati».
L’obiettivo è preciso: far dell’Europa il leader dell’industria pulita, agendo sulla capacità di competere con Russia e Cina, ma senza avvelenare ancora la Terra. La tattica assume le sembianze di una torta millefoglie legislativa.
Il nuovo Deal si compone di iniziative molteplici che intervengono, fra l’altro, sul come limitare la CO2, sulla riforma degli appalti che saranno solo condotti sulla base del prezzo e della proattività ambientale, sugli incentivi al riciclo e all’uso dell’idrogeno.
In parallelo, la Commissione chiede alle capitali di accelerare sulle rinnovabili e interviene sulle terre rare, «necessarie per l’industria pulita», proponendo acquisti congiunti per ridurre i costi. Sul fronte della cassa, l’idea è la creazione di una Banca per la decarbonizzazione industriale da 100 miliardi. Come? Dal Fondo per l’Innovazione ne potrebbero arrivare 20, altri 30 potrebbero essere un contributo volontario degli Stati.
La quota rimanente sarebbe per metà coperta da «fondi privati», il resto è vago. Tutto questo dovrà transitare per le forche caudine del voto del Consiglio (i governi nazionali) e dell’Europarlamento. È una delle ragioni per cui bisogna prendere il Deal con le molle, soprattutto la sezione che si occupa di bollette energetiche, perché non interviene in modo significativo nel breve termine, come i cittadini si attendono.
Occorrerebbe il disegno di una cassa comune che per ora non raccoglie consensi. Un segnale è il lancio di un programma pilota Bei per l’acquisto di energia delle imprese con sostegno da 500 milioni.
Come ogni grande dossier europeo, richiede approfondimento, oltre che la pazienza di attendere cosa diranno i Ventisette. Al di là della complicazione strutturale, resta la sensazione che i soldi non ci siano tutti, che si sia fatto un po’ di rimescolamento per avere un titolo («100 miliardi!») e lasciar correre la palla.
Il Clean Deal dimostra una volontà di dialogo e in qualche misura corregge il tiro del Green Deal in favore delle competitività delle imprese, insistendo comunque sui controlli di sostenibilità per evitare che qualcuno se ne approfitti. Eppure è presto per dire se può funzionare.
Le coperture non sono evidenti. La cortina fumogena serve a von der Leyen per prendere tempo e capire se le capitali sono pronte a metterci davvero qualcosa. Senza soldi, sarà un mezzo piano, massacrato dalla politica euroscettica e destinato a inevitabile fallimento.
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