Mezzo secolo di storie: mafia, donne e passioni nel memoir di Cerasa

Il giornalista raccoglie in un libro gli episodi di cui è stato protagonista. Il filo conduttore è la Sicilia, libera da tutti gli stereotipi

Nicolò Menniti Ippolito

La data di nascita, il 1954, dice che Giuseppe Cerasa ha fatto in tempo a cogliere le ultime ventate del mondo di ieri, anche se poi tutta la sua lunga carriera da giornalista si è sviluppata nel mondo di oggi. Ma oltre al tempo è importante anche il luogo.

È nato in una Sicilia profonda, ha studiato a Corleone, è diventato giornalista a Palermo alla scuola de “L’Ora”, un quotidiano che ha sfornato grandi cronisti, capaci di denunciare con le loro inchieste il sacco di Palermo da parte della mafia negli anni di Lima e Ciancimino.

Tempo e spazio sono protagonisti di “Sipario siciliano. Storie di donne, passioni, segreti, mafia ed eroi senza gloria” (Aragno, p. 180, 20 euro), una sorta di memoir in cui un Cerasa, giornalista di lungo corso prima a Palermo, poi a Roma a Repubblica, non racconta però tanto se stesso, ma un mondo che si srotola di fronte a lui per più di mezzo secolo.

Non domina insomma l’io, ma un noi, che mette insieme le origini familiari, i compagni di scuola, i cronisti coraggiosi delle guerre di mafia, politici e scrittori che hanno creduto nella possibilità di una Sicilia diversa.

Si procede per singoli episodi, che compongono però una vera e propria storia, che comincia nel mondo delle ricamatrici capaci di produrre capolavori mentre tutto intorno un coro di donne snocciola racconti familiari in cui il pettegolezzo si fonde con il dramma.

Ci sono gli emigranti che partono o ritornano, i contadini massacrati dalla fatica in una Sicilia rurale ed antica, ma poi ci sia avvia alla modernità, alle lotte delle cooperative, al sessantotto a Corleone, alla presenza mafiosa sempre più assillante e via via verso i grandi delitti palermitani di cui Cerasa è stato in alcuni casi (per esempio quello di Dalla Chiesa) quasi testimone diretto.

Ed è in effetti da testimone, non da protagonista, che Cerasa racconta tutte le sue storie. È presente nel racconto, ma sempre ai margini, giornalista sin da piccolo e per sempre, attento a cogliere ciò che gli sta intorno e semmai a farlo risuonare dentro di lui, ma mai sovrapponendosi.

Così accade negli incontri e poi l’antica amicizia con personaggi come Sciascia, come Camilleri, come il presidente Mattarella, che non a caso chiude con la sua presenza un libro che cerca in tutti i modi di evitare gli stereotipi sulla Sicilia, su Corleone, su Palermo. Perché esiste – ed è esistita sempre – una Sicilia diversa, coraggiosa, pugnace, magari sconfitta ma non per questo appiattita sulla presenza mafiosa, sul familismo amorale, sul favoritismo, sul silenzio di fronte alla minaccia.

Anche a Corleone nel 1968 si può provare a fare la rivoluzione, a proiettare film contro la mafia, a scendere in piazza, a intervistare Sciascia per il giornalino della scuola. Anche a Corleone si può costruire nel piccolo l’alleanza studenti operai (in realtà contadini) per dare vita a cooperative che consentano ai contadini di non essere sfruttati da chi compra i loro prodotti per due lire per guadagnarne cento.

Certo poi il grande sogno di Danilo Dolci di una diga che porti l’acqua nelle case di tutti viene manipolato dalla mafia per lucrare sui terreni ingannando e minacciando i contadini; certo il sindaco democristiano che prova a cambiare le regole degli appalti viene fatto fuori (politicamente e fisicamente) ma questa è la duplicità di una terra in cui – racconta Cerasa – a ogni azione positiva corrisponde una reazione negativa, che tutto prova a riassorbire: con la violenza o con la pazienza poco importa. —

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