Parola d’ordine: resilienza. Così le città possono sopravvivere alla crisi climatica
Alberi che crollano sferzati dal vento, sistemi fognari che non reggono alla furia dell’acqua. La cappa di smog che soffoca i centri, il cemento che si mangia il verde pubblico. Le città devono adattarsi per non soccombere di fronte al cambiamento climatico. Tanti problemi, ma le soluzioni ci sono: ecco cosa c’è da fare e cosa è stato fatto in Veneto
Una città e i suoi quattro elementi. Acqua, intesa come il suo patrimonio fluviale, ma anche come la quantità spropositata che ne viene dispersa, come quella che inonda le case a seguito di eventi climatici estremi; terra, quella che manca, quella che viene cancellata per lasciar spazio al cemento; aria, inquinata, ammorbata dagli scarichi di troppe auto, a testimoniare un sistema di mobilità che non funziona più.E infine il fuoco, metafora di un surriscaldamento che è sotto gli occhi di tutti, con i nostri inverni prigionieri delle Pm10.
Le città, grandi o piccole che siano, devono cambiare per non implodere di fronte al cambiamento climatico che scioglie ghiacci, innalza mari, ma non solo: rende le città invivibili. E la risposta si chiama resilienza urbana.
Che significa? Adattare gli schemi di costruzione e ricostruzione a un’emergenza che non è nuova, anzi, che diventa ogni giorno più impellente. Cancellare anni di indifferenza non si può, ma l’imperativo categorico delle amministrazioni deve essere mutare, adattarsi per sopravvivere. E per farlo è necessario produrre progetti a lunga gittata, non intervenire solo laddove si crea una falla (pensiamo solo ai fortunali che puntualmente si abbattono sulle nostre città). In Veneto ci sono (ancora pochi) esempi virtuosi, ma ancora tante sfide da affrontare
Pianificazione urbanistica e adattamento climatico
Il colore di un paesaggio urbano. Una colata di asfalto, un parco. Una scelta che può sembrar quasi banale ai più, a chi osserva superficialmente la città che cambia; una scelta che in realtà, se fatta con criterio, è in grado di determinare la capacità di resilienza di un centro urbano di fronte al cambiamento climatico.
Cop26, la conferenza internazionale sul clima si è conclusa, gli obiettivi sono tanti, ambiziosi. Ma cosa possono fare le città, piccole o grandi, per affrontare la sfida del climate change? Come non farsi trovare impreparati di fronte alle temperature che salgono, agli eventi atmosferici estremi? Estate con temperature record, “bombe d’acqua” che mettono in ginocchio interi quartieri. Possiamo far finta di nulla e mettere toppe a ogni falla, oppure agire in modo sistematico, cercando di risolvere un problema che va affrontato senza tergiversare ancora.
Un abito sostenibile cucito addosso
Francesco Musco, architetto, urbanista, professore allo Iuav da tempo con il suo team di ricercatori si occupa proprio di questo: di far correre e intrecciare pianificazione urbanistica e sostenibilità ambientale.
“Risulta sempre più evidente”, spiega Musco, “Come i cambiamenti climatici richiedano una sostanziale modifica degli approcci alla pianificazione della città e del territorio, sia in termini di riduzione della produzione di emissioni clima-alteranti (mitigazione) che nel rendere i sistemi urbani più resilienti alla progressiva variabilità del clima (adattamento)”.
Parte da un dato di fatto, l’impulso dato da Cop26 alle problematiche ambientali. Poi però alza le mani: “Si è stabilito un abbassamento delle emissioni di anidride carbonica, un passo fondamentale, ma c’è un ma. Nella conferenza si discute di macroaree, cosa che per chi gestisce le città può rivelarsi poco utile”.
Come dire, adattare progetti che impattano su aree enormi a piccole o piccolissime realtà.
La città ha bisogno che l’abito sostenibile le venga cucito addosso, a seconda delle sue caratteristiche, delle sue necessità di sviluppo senza prescindere dal suo passato, più o meno glorioso: “Le città sul fronte del cambiamento climatico devono affrontare due grandi temi, da un lato il calore in eccesso, dall’altra l’acqua in eccesso.
“In primo luogo mi riferisco al calore urbano, a quella differenza di temperatura che esiste tra centro e periferie, più sensibile in estate, ma presente tutto l’anno.
Pensiamo all’impatto dei condizionatori, agli effetti del surriscaldamento sulla salute umana”, spiega Musco, “ma qualcosa si può fare. Con la mia squadra da tempo mi occupo di gestione del verde e degli spazi pubblici nell’ottica di resilienza ambientale delle città”.
Ed ecco perché il colore con cui tingere il paesaggio urbano, dove e come realizzare un parco pubblico, non sono solo questioni da amministratori, da comitati di quartiere, ma – e soprattutto – di pianificatori ambientali: “L’integrazione tra la città e i suoi spazi verdi rappresenta un punto da cui partire. Non si può continuare a derubricare tutto a maltempo.
E’ tempo che ci si renda conto che lo stesso fenomeno ha un impatto diverso in differenti parti della stessa città. Ci vuole uno sguardo globale, mettere a sistema gli interventi in un piano complessivo”, osserva il docente dello Iuav.
Come in molti settori, Musco sottolinea che per ragionare correttamente di sviluppo sostenibile e di adattamento delle città, sia necessaria visione. Tradotto in pratica, “Tutti gli interventi vanno messi a sistema, in questo modo possono essere efficaci. Spero, fino ad ora, gli amministratori, gli enti, hanno compiuto qualche passo, ma scoordinato: è necessario realizzare un piano urbano di adattamento climatico”.
Ridisegnare la pianificazione urbana
E continua: “E’ evidente la necessità di ridisegnare le politiche di gestione e pianificazione urbana, abbandonando, in primo luogo, le logiche ex post di un approccio emergenziale, modificando profondamente priorità e obiettivi, per fornire una risposta alla crescente richiesta di sicurezza rispetto ai fenomeni climatici che non si basi solo su interventi di gestione dell’emergenza ma che introduca nuove strategie di adattamento, che siano ex ante e strutturali”.
Alzando lo sguardo, l’urbanista ammette che in giro per l’Europa di esempi virtuosi ce ne sono: “Da Copenaghen a Londra e Barcellona, sono stati realizzati piani per la resilienza delle città”.
“Nonostante l’eterogeneità dei risultati, non va sottaciuto che le realtà urbane che stanno introducendo la questione dei cambiamenti climatici nelle proprie politiche urbane sono numerose, da New York, Chicago, Toronto, Stoccarda, Vienna, Londra fino a città medie italiane come Padova, Bologna e Venezia.
In molti casi hanno redatto strumenti di pianificazione di natura volontaria fino ad ora poco diffusi, in cui vengono proposti e strutturati complessi programmi di adattamento, integrati ad azioni di mitigazione secondo quella che si sta definendo come una complessiva politica di protezione del clima che parte dalle città. Suolo, aria e acqua, ambiente urbano e ambiente naturale sono matrici e ambiti che subiscono analoghe sollecitazioni per il cambiamento climatico e con specifici effetti nelle aree urbane”
E in Italia: “Milano ha fatto molto, ma anche Mantova”. E il Veneto? In pochi lo sanno ma Padova, proprio in collaborazione con il team di Musco, da un decennio lavora su questi temi: il piano locale per l’energia sostenibile della città del Santo è appena stato premiato, giusto per fare un esempio. “Anche Venezia città metropolitana presenta grossi rischi idraulici e sta lavorando su questo”.
Realtà diffuse ce ne sono, ma se ne parla poco, se ne sa poco. Perché? “A livello nazionale un piano esiste, ma non è cogente, è prima di tutto senza denari”, spiega Musco. E la palla passa alle Regioni che dovrebbero realizzare dei piani regionali di adattamento climatico: “La sfida è far entrare l’adattamento climatico nei piani urbanistici in modo sistematico. Per ora è ancora tutto nelle mani di singole iniziative, di sindaci illuminati”, che, fa capire il docente dello Iuav, possono esserci come non esserci. E la Regione Veneto? “L’agenzia per la protezione ambientale si sta guardando intorno. E i fondi ci sono: basta chiederli. Ma servono i progetti, del lavoro di squadra finalizzato a un obiettivo”.
Tanto per calare il tema dell’adattamento climatico nelle città, Musco spiega uno dei progetti di cui si occupa con il suo team: rendere le città più permeabili all’acqua. Come? “Ci stiamo occupando, solo a titolo di esempio, della depavimentazione di una zona di Padova, vicino a Padova Est, di fronte al Centro Giotto”.
Togliere asfalto che va sostituito con delle pavimentazioni che siano permeabili all’acqua. Come dire che le azioni ci sono, basta accorgersene: “Ma se ne parla poco, prima di tutto sui media”, osserva Musco. Piccoli passi se ne stanno facendo, alcune realtà corrono con un po’ più di sprint, ma ancora non basta.
“I piani di adattamento climatico delle città devono fare da ombrello a tutti i piani urbanistici. E poi servono i finanziamenti, prima di tutto a livello nazionale, poi sono necessarie pianificazioni regionali e comunali per il clima”.
A ben guardare Padova ha le sue linee guida resilienti, così come Mantova resiliente. Chi come Musco si occupa di città sostenibili può tendere la mano per plasmare il grande tema dell’adattamento climatico sulla microscala dei Comuni. Una sfida entusiasmante che ha un unico obiettivo, salvare le nostre città.
“Il nostro obiettivo ora è creare sinergie con le amministrazioni locali e convincere le fondazioni bancarie a finanziare i progetti, che ci sono. L’importante è che tutte le azioni siano coordinate per ottenere risultati importanti”.
La terra e l’acqua: il temporale, all’improvviso
Sembrano maestosi. Ognuno di noi in qualche modo ha ricordi d’infanzia legati all’albero che scorgeva fuori dalla finestra della propria camera, quello su cui ci si arrampicava. Poi d’un tratto i tuoni, i fulmini, il vento e come foglie inermi gli alberi vengono giù.
Nella più parte dei casi queste cadute generano disagi temporanei, ma, pur raramente, causano tragedie. I fenomeni atmosferici estremi nella pianura veneta si moltiplicano:all’acqua e al fango si aggiunge la morìa di alberi.
Giustino Mezzalira, direttore sezione Ricerca e gestioni agroforestali di Veneto Agricoltura, ci aiuta a rispondere ad alcune domande, che sorgono spontanee a fronte dei temporali che spazzano via alberi e rami, che cadono sotto i colpi del vento furioso.
Mezzalira è un tecnico ma parla chiaro. Il verde urbano va gestito oculatamente, con professionalità.
Di fronte a fortunali sempre più violenti, quanto è importante la manutenzione o l’impianto di essenze capaci di resistere?
«Rispondo per punti. Il primo: i fenomeni climatici sono più violenti del passato, non lo mette in dubbio nessuno. Con eventi violenti almeno due volte l’anno, crescono i danni al nostro patrimonio. La seconda domanda da porsi, di conseguenza, è se sono ancora giuste le specie di piante che vediamo nelle nostre strade, nei parchi e nelle piazze. E la risposta è no. Tenere pioppi che crescono fino a 30 metri ma sono fragilissimi, vicino a case, giardini, piazze, non ha senso. Meglio scegliere altre specie, con altezze più basse».
Ci fa qualche esempio?
«Possiamo puntare sull’acero campestre, il carpino bianco tipico delle ville venete e ancora, se c’è spazio sufficiente, le grandi querce. Alberi che sono autoctoni».
E le manutenzioni?
«Se c’è qualcosa che rende davvero fragile un albero è la capitozzatura (particolare tecnica di potatura, ndr). Qualsiasi bravo arboricoltore sa che tenere le chiome sotto controllo è possibile ed è altra cosa dal capitozzare. I boulevard di Parigi vengono curati da squadre su piattaforme e curano le piante con un contenimento leggero e frequente delle chiome. Se non ti puoi permettere interventi leggeri e frequenti, e punti su interventi drastici, il rischio aumenta per la pianta perché polloni (rami ai piedi dell’albero) e carie (necrosi vegetali) la destabilizzano. Se non puoi fare interventi frequenti e leggeri occorre scegliere alberi diversi, non di prima grandezza ma di seconda o terza. Poi c’è il tema della formazione».
Cioè?
«Occorre investire nella formazione del personale che si occupa della gestione del verde, settore che richiede grandi professionalità di agronomi forestali. E a questo i nostri Comuni devono abituarsi: se vuoi spendere di meno, devi spendere di più nella formazione. Serve la pianificazione, con i Piani del verde, con schede tecniche e controlli su ogni albero.
Ultima cosa: meglio un albero giovane di uno vecchio e malandato. Puoi tenerne alcuni, in luoghi dove non rappresentano un pericolo per nessuno. E di questo devono essere consapevoli anche i cittadini che si battono contro l’abbattimento di vecchie piante e non capiscono che anche per un albero esiste un momento, quello del fine vita. Il forestale decide prima della piantumazione la durata della pianta nell’ambito di piani di gestione del verde».
Contare gli alberi, uno a uno: si può
Gli alberi, se malgestiti, come ha spiegato Mezzalira, possono rappresentare un rischio, cadere come foglie, provocar danni, ma da tempo immemore si sa che il verde urbano rappresenta il polmone delle città. La vegetazione va preservata, studiata, capita, valorizzata. Questa è l’altra faccia della medaglia.
A Padova un gruppo di ricerca dell’Università si è messa a contar gli alberi uno a uno. Una follia? Macchè. Come è possibile infatti parlare di pianificazione urbanistica e declinarla sul fronte verde urbano senza un censimento che fotografi lo stato dell’arte? Lo studio scientifico si inserisce all’interno della ricerca sulla sostenibilità urbana del gruppo Cambiamenti climatici, territori, diversità del Dipartimento ICEA dell’Università degli Studi di Padova.
La ricerca si è posta l’obiettivo di calcolare e geovisualizzare ad una scala di dettaglio il cosiddetto “verde urbano” nella città di Padova, classificandolo tra pubblico e privato.
Le aree verdi ricoprono un ruolo fondamentale all’interno dei perimetri delle città grazie alle loro funzioni ecologiche, capaci di contrastare numerose criticità ambientali e meteo-climatiche: rimozione di inquinamenti atmosferici (PM10, biossido di azoto, biossido di zolfo ed ozono), riduzione di inquinanti delle acque di drenaggio (fitodepurazione), mitigazione del rischio idraulico ed idrogeologico, attenuazione degli effetti delle isole di calore urbane sulla salute pubblica (termoregolazione del microclima urbano).
Nell’ultimo decennio tale fenomeno di impermeabilizzazione dei suoli procede, nel territorio comunale, ad un ritmo medio di 11-25 ettari all’anno, a discapito di suoli vegetati ed agricoli.
Queste dinamiche, sovente irreversibili, di cambio di copertura del suolo richiedono una particolare attenzione alla dimensione ed alla distribuzione delle aree verdi in città. Ed è in quest’ottica che Padova sta sviluppando i piani di depavimentazione.
Ciò che l’asfalto ha mangiato è difficilmente restituibile, tuttavia, in un’ottica di resilienza, i piani urbanistici prevedono la sostituzione dell’asfalto (impermeabile) con materiali permeabili, che permettano un decorso naturale e controllato dell’acqua nel sottosuolo.
Le analisi territoriali sviluppate hanno pertanto voluto quantificare e cartografare, ad una scala di dettaglio funzionale ad interventi di pianificazione e gestione urbana, le aree verdi presenti sul territorio comunale di Padova, elaborando una classificazione delle aree vegetate sulla base dell’uso del suolo e dello stato di proprietà.
«I risultati delle analisi territoriali all’interno della città di Padova (93 km quadrati di superficie) sono stati mappati 52,2 km quadrati di aree verdi (56% del territorio comunale) di cui il 55% sono aree agricole (28,8 km quadrati).
Le aree verdi private sono preponderanti, occupando circa l’80% del verde totale (41,9 km quadrati); mentre dei 10,2 km quadrati di aree verdi pubbliche, circa la metà sono di proprietà del Comune di Padova (5 km quadrati , circa il 9,6% del verde totale) – dice il prof Massimo De Marchi, Dipartimento ICEA Università di Padova e co-autore dello studio - il verde comunale rappresenta quindi il 5,3% della superficie totale di Padova.
L'analisi della distribuzione delle aree verdi e agricole mostra come il centro storico sia costituito principalmente da superfici edificate, con un’esigua presenza di superfici verdi, spesso radi e di piccole-medie dimensioni. Procedendo radialmente verso l'esterno del nucleo urbano storico, le aree verdi diventano più dense e più ampie, mentre le aree agricole sono sempre più presenti, ad eccezione della zona industriale».
L’aria e il fuoco: se l’inquinamento cuoce le città
Inquinata, corrotta, sporca, maleodorante, in talune giornate perfino irrespirabile. Ecco come l’uomo ha ridotto l’aria nelle nostre città.
E la Val padana, vuoi la sua conformazione orografica, vuoi il suo essere stata locomotiva industriale d’Italia, da anni indossa la medaglia di zona tra le più inquinate d’Italia. Basta dare un’occhiata al rapporto Mal’aria stilato annualmente da Legambiente per farsi un’idea - drammatica- di cosa respiriamo. E come rispondono le amministrazioni? Con quelle che vengono definite le “misure aspirina”.
Il cavallo di battaglia si chiama blocco del traffico: le auto più inquinanti chiuse in garage. E’ stato il lockdown però a dimostrare che si tratta di una misura di pura facciata: al calo del traffico dell’80 per cento a seguito del lockdown da Covid, è corrisposta una diminuzione delle polveri sottili di gran lunga inferiore.
(...)
Le isole di calore. Se mettere l’auto in garage, investire sulla micromobilità elettrica e sul trasporto pubblico può essere utile per migliorare la qualità dell’aria, ci sono interventi che possono aiutare a far fronte al surriscaldamento delle nostre città. Chiunque si rende conto che in città, nelle zone altamente urbanizzate e antropizzate, fa più caldo.
Nei centri urbani in estate spesso si verifica un fenomeno microclimatico, l’effetto isola di calore, che comporta un surriscaldamento locale con un aumento delle temperature fino a 4- 5 gradi rispetto alle zone periferiche o alle campagne. Questo fenomeno è causato dall’intensa urbanizzazione: la presenza di troppo cemento, la scarsa ventilazione, l’assenza di aree verdi.
La conseguenza diretta dell’effetto isola di calore è l’innalzamento delle temperature, sia in estate che in inverno. Chiaramente in estate i disagi aumentino con l’aumento delle massime e l’intensificarsi di ondate di calore intenso.
A questo innalzamento seguono una serie di conseguenze secondarie che hanno effetti immediati sulla qualità dell’aria. Più caldo significherà maggior lavoro dei condizionati per raffrescare gli ambienti interni. Si consumerà più energia e aumenteranno le emissioni inquinanti. Una specie di circolo vizioso cui gli urbanisti stanno cercando di porre fine.
E’ il progetto di Padova resiliente, stilato dal team del professor Francesco Musco (Iuav) che mette nero su bianco quali sono le pratiche necessarie per ovviare a questo problema.
Gli obiettivi sono due: da un lato aumentare la ventilazione naturale, dall’altro ridurre il calore latente. Per ottenere il primo risultato nei piani urbanistici è necessario preservare le zone verdi esistente e realizzare, dove possibile, delle zone umide.
Per il secondo invece è necessario intervenire su edifici e parcheggi, sostituendo le pavimentazioni destinate a parcheggio con aumento di superficie verde per ridurre l’accumulo di calore; poi bisogna diminuire le superfici esposte, e questa azione prevede la sostituzione di tetti piani tradizionali con tetti verdi.
In alternativa si possono realizzare i cool roof, tetti freddi grazie al rivestimento delle superfici di copertura con materiali riflettenti.
I tetti freddi sono in grado di riflettere fino all’80% della radiazione solare e si realizzano con l’applicazione di materiali chiari con un basso fattore di assorbimento solare e un’elevata emissività.
La furia dell’acqua: ne arriva troppa, fa danni e si disperde
Gli effetti del meteo estremo sulle città, dove centinaia di migliaia di persone vivono interconnessi, rischiano di essere ancor più impattanti che altrove. Li conosciamo bene purtroppo.
Le nubi nere si ammassano, il vento e poi giù: in pochi minuti, con una furia inaudita, scende la quantità di pioggia che magari non cadeva da mesi. Ed ecco i danni: le esondazioni, gli allagamenti. Ad ogni fenomeno estremo le città vanno in affanno. Le amministrazioni mettono toppe, ma in Veneto c’è chi sta cercando di risolvere il problema in modo strutturale.
Ecco l’esempio di Acegas Aps: “A Padova, città dove uomo e acqua hanno sempre avuto un rapporto simbiotico, Comune, Consiglio di Bacino A.T.O. Bacchiglione, Consorzio di Bonifica Bacchiglione e AcegasApsAmga sono da anni impegnati per rafforzare la capacità di tenuta delle reti fognarie e di raccolta acque piovane, per prevenire gli allagamenti legati ai fenomeni meteorologici estremi”.
Fenomeni che,come sappiamo, con il riscaldamento globale, stanno purtroppo aumentando di frequenza e intensità. Nessun approccio emergenziale quindi: “Quanto un lavoro di squadra frutto di visione e pianificazione di lungo periodo, che ha proprio nella protezione dai mutamenti climatici l’orizzonte più importante”.
"Un lavoro che si è tradotto in un Piano pluriennale che ancora non ha risolto tutte le criticità, ma che ha già portato, in diversi punti della città, a una riduzione dei fenomeni di allagamento”.
A Treviso ammonta a 15 milioni di euro l’investimento per l’ammodernamento della rete fognaria. Un’opera di ingegneria civile e idraulica come non se ne sono mai viste in città: una condotta sotterranea che si allungherà per un chilometro e mezzo dal centro storico alla tangenziale correndo 9 metri sotto terra, passando sotto case, palazzi, ma anche e soprattutto sotto il letto del fiume Sile, sotto la centrale elettrica di Ponte dea Goba e sotto la ferrovia.
Il pool di ingegneri che lavorano per Ats ha progettato di collegare l’intero centro storico di Treviso al depuratore realizzando la rete fognaria che oggi non esiste. Un piano mastodontico, anche nella cifra: almeno 15 milioni di euro.
Ed ecco il progetto di Padova nel dettaglio:
"Sono tre le principali tipologie di intervento su cui si è già operato e su cui si agirà ancora in futuro: vasche di laminazione, canali di scolo e potenziamento della rete fognaria”.
Le vasche di laminazione sono serbatoi che si riempiono temporaneamente di acque meteoriche in caso di forti piogge, per poi rilasciarle gradualmente: “In questo modo si evita il sovraccarico (e l’esondo) di fognature e canali durante gli acquazzoni”.
La realizzazione di nuovi canali di scolo è propedeutica a un miglior deflusso delle acque piovane.
Infine, fondamentale è il potenziamento fognario, che riguarda solitamente la posa di fognature più ampie. L’obiettivo è quello di evitare colli di bottiglia che, in caso di forti piogge, quando l’acqua piovana si mischia alle acque nere, possono provocare allagamenti.
La cornice di tutti questi interventi che vedono impegnati diversi attori del territorio della provincia di Padova è una digitalizzazione sempre più spinta che oggi consente di simulare al PC gli impatti della piovosità sulla rete fognaria, per individuare preventivamente i punti di maggior debolezza e concentrare su quelli gli interventi prioritari.
La situazione attuale ci pone di fronte a quello che può sembrare un paradosso: momenti di piogge intensissime e allagamenti seguiti da lunghi periodi di siccità.
"La lotta contro le perdite di acqua potabile dalla rete è diventata ancor più strategica. AcegasApsAmga è impegnata su questo fronte anche attraverso tecnologie avanzate, che consentono di intervenire in modo chirurgico anche a fronte a fuoriuscite di lieve entità o, addirittura, in modo preventivo”.
Tre sono attive su Padova.
Correlatori ad altissima gittata. Consentono di ascoltare i tubi per rilevare perdite anche a distanze di 2 km, consentendo di individuare le perdite anche in zone difficilmente raggiungibili.
Rilevamento aereo delle perdite. Grazie a voli aerei e all’uso di appositi radar, si possono individuare perdite d’acqua nel terreno ancora non manifestate, senza necessità di operazioni a terra.
Transitori di pressione. Si tratta di piccole bombe di pressione iniettate all’interno delle condotte, che consentono non solo di individuare perdite sulla lunga distanza, ma anche di rilevare anomalie nella condotta, come, ad esempio, le incrostazioni.
In questo modo in poco meno di dieci anni le perdite di rete a Padova sono state portate al 27 % (una riduzione di quasi 6 punti percentuale rispetto al 2013.
«Secondo l’ultimo rapporto ISPRA del 2021 la città di Padova risulta essere tra i primi cinque Comuni italiani, tra quelli con più di 100.000 abitanti, per tasso di suolo consumato”, spiega il prof Salvatore Pappalardo, del Dipartimento ICEA dell’Università di Padova e tra gli autori dello studio.
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