Criminologia green: come combattere i reati ambientali a Nord Est
Natali, Milano-Bicocca premiato dallo IUSVE: «Da Porto Marghera ai Pfas, saltano le ordinarie categorie di pensiero. Ci sono gli effetti di latenza e la verità del vissuto di chi si aspetta giustizia»

I crimini che siamo abituati a considerare, come i femminicidi, sono drammaticamente semplici: c'è un autore e c'è una vittima. Quando guardiamo ai crimini ambientali - e qui a Nord Est c'è solo l'imbarazzo della scelta - le cose si complicano maledettamente: le vittime sono tante e spesso non sono così consapevoli di esserlo ed anche i responsabili non sono molto “responsabilizzati”.
Insomma per il criminologo green il lavoro non è facile. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Natali, professore associato di criminologia all'Università di Milano-Bicocca, che da anni studia i crimini ambientali.

Natali ha ricevuto, nel corso di un convegno “La Green Criminology. Nuove prospettive sui crimini ambientali” che si è tenuto all'Istituto Universitario Salesiano di Venezia (IUSVE ) il premio “SCRIVI”, un riconoscimento che viene assegnato annualmente a un criminologo che si è distinto per i suoi studi e il suo impegno a favore, in particolare, delle vittime di reato da parte del Centro Universitario di Studi e Ricerche in Scienze Criminologiche e Vittimologia (SCRIVI) di IUSVE.
Natali è autore, tra le altre cose, di un'importante monografia, “Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali” edita da Giappichelli, in cui sono contenuti i suoi studi e i risultati delle sue ricerche sul campo.
Quali sono le caratteristiche principali della criminologia "green" o meglio quali sono le particolari difficoltà che deve affrontare?
Socialmente la criminologia è erroneamente associata alla scena del crimine, e questo anche grazie all'influenza delle varie serie televisive. In realtà, soprattutto nel caso dei vari disastri ambientali, come Porto Marghera o i Pfas, lo sforzo del criminologo è non tanto quello di registrare la “scena del crimine”, che qui è molto complicata, nel senso che i perpetratori e le vittime assumono delle forme molto differenti rispetto alle forme tradizionali, ma soprattutto quello di comprendere le logiche che stanno dietro a questi fenomeni. Teniamo presente che spesso si tratta di un inquinamento che si produce nel corso degli anni e addirittura che oltrepassa le biografie dei singoli individui. E quindi diciamo, tutte le nostre categorie, anche antropologiche, giuridiche, di pensiero saltano. Perché abbiamo degli effetti di latenza, dall'amianto di Casale Monferrato all'inquinamento da Pfas qui nel Veneto, che si manifestano a distanza di una o più generazioni. E si tratta di una trasmissione che non è immediatamente percepibile ai sensi, il che rende ancora più insidiosi questo tipo di danni. Occuparsi dei crimini ambientali per un criminologo significa intercettare queste dimensioni che includono naturalmente il tema della giustizia e dell'ingiustizia.
Lei racconta come le vittime non siano sempre consapevoli della loro situazione. Anche per questo spesso non vengono considerate. Qual è il loro possibile ruolo?
Prima di tutto occorre ascoltare le vittime. Ho ascoltato recentemente un breve video in cui parlavano le vittime dei Pfas. Qui le narrazioni delle vittime hanno un valore decisivo perché riguardano il tema della verità. Di quali verità dobbiamo prenderci cura? La verità giuridica? La verità scientifica? C'è anche la verità personale dei vissuti di queste persone che si vedono tradite nelle aspettative di giustizia e anche nel futuro stesso. Persone che si trovano da un momento all'altro dentro uno scenario catastrofico. Parlavano, queste persone, della bellezza dei luoghi del Veneto e di come ad un certo punto, quella stessa bellezza, si è ribaltata esattamente nel suo opposto, cioè in un veleno pericoloso. La questione è proprio di riuscire a definire l'equilibrio giusto da dare al riconoscimento della responsabilità, perché la responsabilità deve essere riconosciuta anche per dare un senso al male subito, ma poi occorre anche maturare uno sguardo verso il futuro perché è la generazione che segue sarà quella che poi pagherà ancora di più queste conseguenze.
C'è anche un problema, di cui tratta nel suo libro, della "responsabilizzazione" dei responsabili che spesso non avviene nelle aule dei tribunali.
Nei grandi casi di contaminazione, in una situazione di ingiustizia diffusa, i tribunali spesso non possono rispondere a questo tipo di domande di giustizia. Il caso della prescrizione è emblematico: essa “taglia via” tutta una dimensione di giustizia che viene richiesta e viene urlata. Anche a partire da questi limiti, una delle direzioni che ultimamente sembrano prendere corpo è il tema della giustizia “riparativa”, un tema molto delicato che suscita schieramenti abbastanza forti. La giustizia riparativa si pone il problema di trattare le ferite nei vissuti delle popolazioni di quei territori attraverso un confronto tra i possibili responsabili e i vari comitati di vittime in cui vengano riconosciute le conseguenze dannose che si sono create nel corso degli anni, per poi, da lì, pensare a risposte riparative. Spesso si parla dell’importanza del risarcimento economico, che è fondamentale, ma che da solo rischia di far percepire che tutta la questione sia riducibile a una somma di denaro. L'esigenza è certamente di un risarcimento materiale, ma anche e soprattutto di una riparazione simbolica e di un riconoscimento delle verità delle persone coinvolte. Occorre lavorare sulla verità, una verità non metafisica, ma nemmeno solamente giuridica, piuttosto una verità storica. Occorre pensare a come riparare quello che è successo, ma anche come proiettarci in un futuro possibile, perché le vittime hanno bisogno di fuoriuscire anche da quel vissuto che le intrappola in vittime passive.
Molti crimini ambientali sono crimini dei "colletti bianchi" non soggetti a riprovazione sociale, cioè gli autori sono accettati in società, su questo sta cambiando qualcosa secondo lei?
La percezione sociale sta cambiando molto, questo è un dato, anche se non è mai un processo lineare, come in tutto. Diciamo che c'è maggiore consapevolezza rispetto al passato che fatto che alcuni crimini possono essere posti in essere non solo dal criminale comune, ma anche da chi detiene una posizione di potere e che spesso è in dialogo anche con le istituzioni statali e quindi gode di una certa impunità. E soprattutto ha un potere di influenza molto forte a livello economico, sociale, legislativo e culturale. Qui si posiziona anche tutto il tema del greenwashing, cioè il cosiddetto “lavaggio verde”. Chi detiene strumenti di potere e capitali culturali può influenzare l'orientamento della percezione sociale salvaguardando quell'immagine che invece può nascondere, in alcuni casi, un'attività che concretamente produce dei danni socio-ambientali.
Mi sembra di capire che c'è tutto un problema di percezioni: ad esempio il crimine di strada rimane più impresso perché è istantaneo, mentre il crimine ambientale è diluito nel tempo.
Certamente, è il tema della percezione sociale di quella che voglio chiamare “violenza ecologica”. Il fatto stesso di nominarla come “violenza” è importante. Sappiamo che spesso quelli ambientali non sono considerati crimini, anzi sono considerati crimini “senza vittima”, perché le vittime sembrano evaporare in questa dimensione che oltrepassa il tempo biografico. Nel momento in cui si dà un nome, attribuiamo anche un significato, un valore, una dignità a quel fenomeno, quindi per questo parlo di violenza ecologica e non solo di crimini, proprio perché questa espressione restituisce un contenuto a livello di percezione sociale che è molto più forte. E questo è il punto che per me è importante: la violenza ecologica avviene lentamente. E il caso dell'inquinamento da Pfas è esattamente un caso di violenza lenta. In cui questa lentezza è riuscita a oltrepassare i radar della percezione sociale e fino a un certo punto della responsabilità, tutte cose che invece adesso stanno tornando prepotentemente in maniera molto drammatica.
Le principali inchieste sul traffico illecito dei rifiuti in Veneto sono scaturite da denunce di gruppi e comitati di cittadini. È abbastanza valorizzato il loro ruolo in queste vicende? Sono presi sul serio?
La capacità di agire nel proprio ambiente anche quando si ha meno potere rispetto ad altri attori sociali, come nello scontro tra Davide e Golia, è una dimensione fondamentale, direi proprio generativa, per riuscire ad attivare dei mutamenti e delle trasformazioni. Certamente quel potenziale trasformativo non è ancora valorizzato appieno per varie ragioni: da un lato, certo, occorre dare ascolto a quel tipo di pressione dal basso che implica anche un ribilanciamento dei poteri, dall'altro, i movimenti sociali devono riuscire poi a calibrare bene le loro risposte proprio per essere considerati nel modo giusto e adeguato. La questione è quella di riuscire a tenere una resistenza forte rispetto a questo squilibrio di poteri e al tempo stesso collaborare in maniera strategica. Per essere “presi sul serio” occorre avere una visione sufficientemente complessa della questione e della lotta stessa.
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