La crisi climatica richiede un ventaglio di azioni coordinate tra soggetti pubblici e privati
E poi soldi, tanti soldi: non i numeri da elemosina stanziati sinora dalla maggior parte dei Governi, compreso quello italiano
Fatti, non parole. Alle sterili polemiche su eventi estremi e clima impazzito, fa riscontro un rapporto messo nero su bianco dal WMO (World Metereological Organization), agenzia dell’Onu che si occupa del meteo planetario: c’è scritto con estrema chiarezza che tra il 2023 e il 2027, con una probabilità del 66 per cento, la temperatura della superficie terrestre rischia di superare in media il livello di un grado e mezzo di aumento rispetto alle cifre relative all’epoca pre-industriale. In tal caso, spiegano gli esperti dell’organizzazione, l’umanità arriverebbe al punto di non ritorno.
Sarebbe palesemente suicida stare seduti ad aspettare quello che potrebbe capitare non in un futuro remoto, ma tra appena quattro anni, magari continuando a discutere se i fenomeni atipici di questa pazza estate siano legati o no al clima balordo.
Cosa si può fare per evitarlo? Serve un ventaglio di azioni coordinate tra soggetti pubblici e privati, rispondono gli esperti, sottolineando peraltro che il ruolo centrale spetta ai singoli governi nazionali, in parallelo con gli accordi presi a scala internazionale. E qui la situazione è tutt’altro che confortante, anzi, specie in casa nostra a scala della casa comune europea. Il fatto è che all’interno dell’Unione Europea i cambiamenti climatici stanno già registrando impatti allarmanti: un po’ dovunque, compresa questa estate anzi di più, sono in aumento le segnalazioni di fenomeni meteo estremi, tali da mettere a rischio gli ecosistemi e di conseguenza la salute delle popolazioni.
Non è un problema di queste settimane: il processo è in atto da tempo, al punto che fin dal novembre 2019 il Parlamento europeo ha proclamato lo stato di emergenza climatica; e successivamente Bruxelles ha attivato programmi comunitari di contrasto, come il “Green Deal” , con l’obiettivo dichiarato di raggiungere la neutralità climatica, riducendo tra l’altro le emissioni di gas serra del 55 per cento rispetto ai livelli raggiunti nel 1990 entro il 2030, come dire dopodomani, che ci riesca, è tutt’altro che scontato.
Il fatto è che una singola misura non basta: occorre un ventaglio coordinato di interventi, e soprattutto servono soldi, e tanti. Ma qui si presenta la principale criticità: al di là delle dichiarazioni di intenti, nei Paesi dell’Unione le spese destinate all’ambiente sono tra le più basse, addirittura al penultimo posto nella graduatoria per singoli settori di spesa.
Qualche cifra, per dare l’idea: nel complesso degli Stati aderenti alla Ue, gli stanziamenti per la protezione sociale ammontano a 2.983 miliardi di euro, quelli per la salute a 1.179, quelli per le questioni economiche a 918; alla tutela dell’ambiente sono destinati appena 119 miliardi, l’ammontare più basso prima di quello per l’assetto del territorio (altro settore in crisi…) che ne riceve solo 91.
Ancor più indicativa è la percentuale di spesa rispetto al volume del Pil, il prodotto interno lordo: ormai dal 1995, la media europea per l’ambiente è dello 0,8 per cento; con l’aggravante che le quote più consistenti vengono assorbite dalla gestione dei rifiuti e delle acque reflue, mentre per la protezione ambientale ci si ferma a un desolante 0,1.
Sono numeri da elemosina, specie se paragonati al calcolo di quanto occorrerebbe per mettere mano a interventi davvero risolutivi sul piano dei cambiamenti climatici: per raggiungere la neutralità, obiettivo fissato per il 2030, servirebbero un migliaio di miliardi l’anno, tra fondi europei, nazionali e privati; cifra che per l’Italia diventa di 183 miliardi in più rispetto a quanto previsto dalle politiche attuali.
A togliere ogni illusione è il pessimo esempio che stiamo già dando in materia, e non da oggi: sul nostro Paese gravano attualmente 82 procedure di infrazione rispetto alle normative europee; per la maggior parte, si tratta di misure legate al settore ambientale. Con una violazione che negli ultimi dieci anni ci è costata 800 milioni di penali pagate a Bruxelles. Altro che primi della classe: siamo gli eterni ripetenti.
Riproduzione riservata © il Nord Est