La Marmolada, specchio delle fragilità di tutto il Nord Est

Lo zero termico a quote mai viste prima, l’indice di pericolosità idraulica e la mano del’uomo, con la cementificazione selvaggia e l’inquinamento di aria e suolo: alla fine, tutto si tiene. Drammaticamente

Una immagine satellitare del ghiacciaio della Marmolada
Una immagine satellitare del ghiacciaio della Marmolada

Ghiaccio alla griglia. Nel pazzo menu di questa torrida estate 2024, spicca la “new entry” che arriva dalla Marmolada: da due mesi, alla quota massima di punta Penia (3343 metri) la temperatura rimane ininterrottamente sopra lo zero termico, e già nelle prime ore della giornata sale a più 10 gradi.

L’ultima volta dell’(appena) sotto zero si era registrata il 5 luglio, con meno 0,9 gradi; il valore più elevato è giunto a più 13 il 19 agosto, record da dieci anni a questa parte. Appena un anno fa, il 23 agosto, si era registrato il valore minimo di meno 8. Ed è tutt’altro che un’eccezione: sull’intero arco alpino, per riscontrare lo zero termico bisogna arrampicarsi a quasi 5mila metri. E’ l’eloquente risposta di una natura sconvolta dall’uomo agli ayatollah negazionisti a oltranza del cambiamento climatico.

Il caso della vetta-simbolo delle Dolomiti, caratterizzata dal più vasto ghiacciaio (per ora…) dell’intera area, propone peraltro una riflessione di carattere più generale sull’allarmante fragilità di un territorio come il Nord Est, estesa all’intera questione ambientale. Se ne occupa anche il regista e attore bellunese Marco Paolini, con uno spettacolare racconto teatrale a tappe.

Dice già tutto il titolo, affidato a un gioco di parole: “Mar de Molada”, che come spiega l’autore tratta di “crode, rive, grave, palù, arzeri, valli, idrovore, aqua e tera”. Come dire, l’ambiente narrato come un tutt’uno, dal granito della montagna al liquido dei fiumi: perché al di là della forma esteriore, è esposto ad un unico Grande Rischio.

I capricci dei fiumi

A dar ragione a Paolini sono cronache plurisecolari di una vasta area ripetutamente massacrata fino ai giorni nostri dai capricci dei fiumi: Po (1951) e Adige (1882) in primis; ma anche Brenta e Bacchiglione, Piave e Livenza, Tagliamento e Isonzo. A cui vanno aggiunti i devastanti terremoti che hanno toccato l’apice nel 1976 in Friuli, provocando 965 vittime; pure qui con tragici precedenti, come quello del 1117 in Veneto che registrò ben 30mila morti.

Ancora: le frane provocate direttamente dalla criminalità umana, a partire dalla tragedia del Vajont del 1963 a Longarone, pagata con la vita da 1910 persone; mentre il Friuli-Venezia Giulia ha messo assieme un catasto che annovera nei secoli oltre 3mila eventi catastrofici. Infine, lo scandaloso mix di cementificazione selvaggia, inquinamento dei suoli e dell’aria, escavazioni a nastro, puntualmente e inesorabilmente documentato anno per anno dai rapporti del ministero dell’Ambiente.

Nord Est ad alto rischio ambientale

In questo desolante contesto, il Nord Est che tiene a vantare i suoi primati deve includerne uno di nefasto: è tra le aree più a rischio ambientale del Paese, come segnala l’Ordine dei geologi, in particolare per frane e alluvioni; tra le criticità principali la pericolosità idraulica, che arriva al 9 per cento in Veneto e 8 in Friuli Venezia Giulia, valori al top a scala nazionale. Ecco perché il rovente bollettino che arriva in questi giorni dalla Marmolada è tutt’altro che un’anomalia episodica: spiega, a chi lo vuol sentire, che ci stiamo facendo del male da soli. E che soffriamo di un’allarmante bulimia di consumo ambientale: disturbo che comporta un effetto letale.

Autodistruggersi.

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