Nel pieno della siccità epocale, costruiamo casse di espansione per proteggerci dalle piene
La politica della Regione Veneto e il confronto tra esperti sul piano dei bacini e le altre costosissime opere di mitigazione del rischio idrogeologico
È uno dei paradossi a cui dovremmo abituarci in questi anni: siamo nel pieno di una siccità epocale (appena intaccata dalle precipitazioni recenti) e la Regione Veneto sta spendendo 510 milioni di euro per realizzare 23 enormi bacini di espansione per difenderci dalle alluvioni: 110 milioni di metri cubi di acqua, per capirsi, un’enorme cisterna cubica di mezzo chilometro di lato (altezza compresa, naturalmente).
Il fatto è che il rovescio della medaglia della siccità sono proprio le piogge monsoniche, assolutamente imprevedibili e di portata tale da saturare la normale portata dei fiumi e da inondare migliaia di ettari di territorio, con conseguenze devastanti.
Il piano di cui stiamo parlando infatti è stato varato nel 2011, all’indomani dell’alluvione che l’anno prima aveva colpito in particolare il Vicentino. Accanto ai bacini di espansione il piano prevede investimenti per altri 2,5 miliardi di euro in opere per la mitigazione del rischio idrogeologico, compreso il rafforzamento (per 400 milioni di spesa) di svariati chilometri di argini, messi a dura prova dalle piene.
Alcuni di questi bacini al momento sono però sommersi, più che dalle acque, dalle critiche: alle comunità locali in genere non piace impegnare migliaia di ettari del proprio suolo agricolo per il beneficio di territori più a valle, magari lontani, ma le polemiche arrivano soprattutto dagli ambientalisti, dai comitati dei residenti e anche da alcuni studiosi (Andrea Goltara, del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, Francesco Vallerani, della Cattedra Unesco per l’acqua di Venezia, Eriberto Ulisse, del Centro Internazionale dell’Acqua di Scorze, direttore della Rete mondiale dei musei dell’acqua), che non condividono lo “spirito” stesso di queste opere, improntate “a un’artificializzazione dei terreni limitrofi ai corsi d’acqua che ignora le soluzioni naturali proposte dall’Agenda Water Action delle Nazioni Unite”.
Gli habitat naturali a rischio
Critiche che riguardano anche le proposte in materia di siccità, su cui si stanno ancora attendendo indicazioni precise dal Governo, ma che secondo questi studiosi rischiano di aumentare la perdita di biodiversità nei sistemi di acque dolce con la distruzione degli habitat naturali, un ulteriore abbassamento delle falde, la mancanza di sedimenti sulla costa e quindi maggiore erosione costiera.
A ribattere alle accuse ci sono gli esperti di idraulica che hanno ispirato il piano dei bacini (i professori dell’Università di Padova Andrea D’Alpaos e Luca Carniello), e naturalmente l’assessore all’Ambiente e alla Protezione Civile della Regione veneto Giampaolo Bottacin, che sta portando avanti il piano (e che di D’Alpaos è stato allievo all’università).
“Realizzare un bacino di laminazione non comporta la deturpazione dell’ambiente - sostiene D’Alpaos – I critici vadano a vedere a Caldogno (Vicenza) se quella parte di territorio è migliorata o peggiorata col bacino: prima il parroco quando pioveva dava l’allarme suonando le campane, ora invita la gente a vedere l’opera”.
Realizzato per drenare l’eventuale acqua in eccesso del modesto ma infido Timonchio, che alimenta il Bacchiglione che di volta in volta accarezza o minaccia Vicenza, il bacino si presenza in realtà come un’enorme distesa di campi coltivati, con due invasi da 4,6 milioni di metri cubi, circondati da un argine erboso lungo 4,5 chilometri percorso da ciclisti, runner e signore con cagnolini al seguito, con tre massicce barriere di paratoie per la gestione in entrata e in uscita dell’acqua del torrente.
Le Grave di Ciano
Più complessa la questione del bacino di espansione alle Grave di Ciano, sul Piave, ancora in fase di progettazione ma già capace di catalizzare la battaglia di Comitati locali e ambientalisti, che paventano “la distruzione di oltre 550 ettari di un territorio di grande valore ambientale” e reclamano piuttosto “la realizzazione di un progetto di ripristino funzionale idromorfologico di tutta l'area del Medio Piave”, fino alle Grave di Papadopoli e di Negrisia.
“Non ci sarà nessuna cementificazione – spiega il professor Carniello – anzi si sta facendo di tutto per mantenere la naturalità di una zona che è un’area di espansione del fiume quando supera i 1000 metri cubi di portata al secondo”.
Ma spiegano i due docenti che negli ultimi decenni la zona è andata via via deteriorandosi, con escavazioni massicce, scarico di materiali di ogni tipo, depositi di ghiaia e l’invasione di vegetazione.
“Il problema è che il Piave, come altri fiumi – aggiunge D’Alpaos – ha visto ridurre drasticamente la sua portata a causa di una politica dissennata di concessioni, e questo non può non avere gravi ripercussioni sul suo regime: si pensi che la portata media del fiume a Segusino è di 118 metri cubi al secondo, e ci sono concessioni per il prelievo di 98 metri cubi. Persino per l’invaso del Vajont, che naturalmente non è mai entrato in funzione, c’è una concessione di 14 metri cubi. Bisogna rivedere tutto il sistema, anche gli agricoltori devono imparare a coltivare con meno acqua. Se si lasciasse più acqua nel fiume non ci sarebbero i problemi che ci sono, anche se piove meno: la media delle precipitazioni nella nostra regione è di 1100-1200 millimetri l’anno, che sono un’enormità; lo scorso anno abbiamo avuto 770 millimetri, ma se andiamo a vedere nel passato ci sono stati anni con 600 millimetri, e non è stata una tragedia”.
L’utilizzo dei nuovi bacini
Ma i nuovi bacini potrebbero essere usati anche per alimentare le falde, o per trattenere l’acqua per uso irriguo nei periodi di siccità? Qui la risposta non è univoca, ma quello che è chiaro è che non nascono con questo scopo, salvo quello in fase di progettazione sull’Astico, a Meda, nell’alto Vicentino.
“Sono concepiti per essere svuotati appena passata la piena”, dice D’Alpaos, ma Carniello aggiunge che “in teoria – se non c’è il rischio di ulteriori piene – l’acqua può rimanere più a lungo e incentivare l’infiltrazione, perché il fondo non è impermeabile”.
Per la siccità occorre però pensare ad altro, e la Regione sta puntando – d’intesa con l’Anbi, che raccoglie i consorzi di bonifica - a soluzioni per ridurre la dispersione idrica e razionalizzare i consumi, ripulire gli invasi dai detriti e utilizzare le cave dismesse per “conservare” l’acqua che si rendesse disponibile, fino a ipotizzare il riutilizzo delle acque reflue depurate per uso irriguo e la realizzazione di impianti di desalinizzazione.
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