Nel 2025 bollette più care del 15%: ecco perché e quali i possibili rimedi
Gli obsoleti meccanismi di determinazione delle tariffe contribuiscono a gonfiare i costi delle utenze. La soluzione più efficace sarebbe la separazione del prezzo di gas e rinnovabili
La soluzione più efficace per frenare la corsa delle bollette elettriche è il divorzio commerciale fra energia rinnovabile e gas. Il disaccoppiamento. O decoupling, come lo chiamano i tecnici. Ovvero la separazione fra le due fonti di energia, la verde e la nera, nella determinazione del prezzo che cittadini e imprese pagano ogni volta che accendono la luce.
Quest’anno il conto per utenza salirà nella migliore delle previsioni del 15% (lo dice Nomisma), infiammando una spesa che è già più cara del 30 per cento rispetto ai diretti concorrenti europei. La colpa è dei terremoti geopolitici e della speculazione che ci gioca sopra, ma anche di meccanismi di definizione delle tariffe ormai obsoleti. Lunedì 27 gennaio il gas quotava alla Borsa di Amsterdam (Ttf) appena sotto i 48 euro al Megawatt/ora contro i 30 di luglio. «La situazione attuale è oggetto d’attenzione da parte del Governo», assicura il ministro Pichetto Fratin. Ci sarebbe mancato il contrario.
Attraversiamo tempi incerti e obliqui. Il prezzo di riferimento del gas è fissato sul Ttf ed è inevitabilmente il risultato del braccio di ferro fra offerta e domanda. Quest’ultima si è gonfiata in modo significativo, negli ultimi mesi, come effetto delle crescenti richieste asiatiche e della guerra in Ucraina che ha portato con gennaio l’interruzione di importanti flussi di metano verso l’Europa, mentre le forniture algerine e azere si sono ristrette.
Un inverno particolarmente rigido ha allargato i consumi e quindi il fabbisogno
Un inverno particolarmente rigido nel Nord del Continente ha allargato i consumi, dunque il fabbisogno, e l’esigenza di rimpinguare le scorte che il gelo ha sorpreso a un livello non del tutto rassicurante (il 68 per cento italiano è superiore alla media Ue). L’effetto in apparenza paradossale è che i contratti di acquisto per l’estate 2025 sono più cari di quelli per l’inverno: è la corsa a riempire i magazzini, cosa che la Germania ha fatto senza troppa grazia, offrendo il fianco alla speculazione.
Le regole del gioco impongono a chi produce gas di prezzarlo sul mercato, anche se si è attivi nella distribuzione. L’azienda che ci consegna l’elettricità, per farla breve, deve abbeverarsi sul Ttf di Amsterdam, e non cambia se nel cortile di fianco vende megawatt in abbondanza: la decisione fu presa nel nome della trasparenza. A questo punto entra in gioco la spesa degli utenti finali.
Nel caso italiano, l’energia generata da risorse rinnovabili (poco costosa) viene equiparata a quella derivata dal gas, anzi “dal gas più caro”, spiega una fonte industriale. In pratica, paghiamo il verde quanto il nero peggiore, per ragioni di stabilità dell’offerta e perché, quando si varò il meccanismo, si intendeva incoraggiare gli investimenti nel sole e nel vento. Da allora sono passati 25 anni. Oggi la quota termoelettrica a gas pesa poco più del 40% della generazione complessiva, ma è lei che fa il prezzo.
Il decoupling promesso da Giorgia Meloni non è ancora diventato realtà
Ecco perché il decoupling aiuterebbe. Giorgia Meloni lo sa bene. Negli ultimi mesi della campagna elettorale del 2022 ne fece un tema ricorrente nella strategia acchiappavoti rivelatasi vincente. «Il disaccoppiamento può essere realizzato subito anche a livello nazionale con un costo sostenibile e un effetto immediato sulle bollette», dichiarò il 9 settembre. Dieci giorni dopo fu perentoria: «Se il governo non lo dovesse fare in questi giorni, sarebbe un primo provvedimento del nostro».
Non è successo. Pichetto Fratin ha annunciato un Ddl per il nuovo nucleare (ci vorranno anni) e si è impegnato a lavorare per l’anticipazione di una parte delle aste per gli stoccaggi di gas, come antidoto almeno parziale a chi specula sui listini. L’idea ragionevole di convincere l’Europa a mettere un tetto al prezzo per ora non avanza per assenza di consenso. Più fattibile sarebbe la creazione di un meccanismo di acquisti comuni in cui gli Stati Ue comprassero insieme quantitativi più ampi spuntando prezzi minori. Se ne parla.
Non esistono soluzioni semplici. Sugli impianti termoelettrici, al costo della materia prima gas si somma oltretutto il costo della CO2. Le aziende che inquinano più di quanto previsto posso comprare dei permessi speciali europei, introdotti come disincentivo a infestare ma anche come uscita di sicurezza per chi non ha scelta. Questi permessi sono scambiati su una piattaforma (ETS, Emissione Trading System) dove le imprese vendono quelli inutilizzati a chi ne ha bisogno: nel 2024 il prezzo medio è stato di circa 65 €/tonn, equivalente a circa 25 €/MWh, a fronte di un valore medio di 7€/tonn del 2012-2017.
Questo costo, sottolinea il ministero, «si riflette per il 70% delle ore su tutta la generazione elettrica, indipendentemente dalla fonte di generazione». A livello europeo non è questione trattabile. Però la riduzione delle emissioni con investimenti mirati, che il governo assicura di voler perseguire, può rendere meno esoso il conto.
Quanto al disaccoppiamento, Pichetto Fratin sostiene che è «necessario adottare misure volte a evitare che si creino rendite ingiustificate». Come? Con la cautela che Giorgia Meloni non aveva prima di diventare premier. Le nuove regole, ha spiegato il ministro dell’Ambiente in Parlamento, devono essere efficaci già nel breve termine senza intaccare le regole di funzionamento dei mercati spot europei e nazionali e inattaccabili sotto il profilo della legittimità.
Un intervento è concepibile solo a patto di rivedere il sistema di scambi continentale. Intanto si potrebbe tagliare temporaneamente l’Iva rinunciando a qualche spesa pubblica meno urgente. «Nei prossimi giorni avvieremo un tavolo di confronto con le forze politiche», assicura. Intanto le bollette aumenteranno. Come il diesel sul quale l’accisa salirà «in un congruo lasso di tempo» di due cent, trasferendo 180 milioni l’anno dalle tasche degli italiani all’Erario. —
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