Autonomia differenziata, ecco perché la Consulta ha bocciato il referendum
Unico quesito respinto, accolti gli altri cinque, fra cui Jobs Act e Cittadinanza. Si profilava il rischio di una collisione con l’articolo 116, comma terzo. Esulta Zaia: «Ora lavoriamo sereni». Il Pd: «Il testo respinto scritto dalla Cgil»
Non ci sarà alcun referendum abrogativo sull’autonomia differenziata, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito profilando il rischio di una collisione con l’articolo 116 della Costituzione.
«Che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale», specifica la Consulta. La politica si scatena con le reazioni e ogni fazione dà una lettura più o meno opportunistica di questa nuova pronuncia.
Il dato inequivocabile è che una consultazione popolare non ci potrà essere per un vizio nell’impianto del quesito stesso.
«È stata la Cgil a formularlo», rivela una fonte informata all’interno della galassia democratica del Veneto. «Volevano approfittare del tema dell’autonomia per fare da traino anche agli altri referendum ma sono caduti in questo errore». E infatti lunedì 20 gennaio la Corte (con soli 11 giudici su 15) si è espressa anche su altre cinque proposte di consultazione referendaria, tutte giudicate ammissibili: cittadinanza, jobs act, indennità di licenziamento nelle piccole imprese, contratti di lavoro a termine, responsabilità solidale del committente negli appalti.
Esulta il presidente del Veneto Luca Zaia, naturalmente. «Questa sentenza ci consente di lavorare con maggiore serenità. Auspico che diventi un’occasione per avviare un dialogo costruttivo e porre fine agli scontri», dice il governatore.
Per la Consulta «l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore». In attesa della sentenza che sarà depositata tra qualche giorno, i giudici danno una prima spiegazione sintetica. «Il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma, della Costituzione: ciò non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale».
Il costituzionalista Stefano Ceccanti riassume così: «La mancanza di chiarezza del quesito avrebbe portato a un anomalo plebiscito su un articolo della Costituzione».
I dem provano a vedere il bicchiere mezzo pieno, chiamando in causa la precedente sentenza della Corte costituzionale, quella con cui è stato espresso un giudizio di costituzionalità sulla riforma Calderoli. La decisione risale allo scorso mese di novembre.
I giudici hanno accolto parzialmente i ricorsi presentati da quattro regioni guidate dal centrosinistra (Puglia, Toscana, Sardegna e Campania), dichiarando illegittimi sette punti chiave del provvedimento promosso dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie. In quel frangente la Consulta non ha dichiarato incostituzionale l’intero impianto della legge, come chiedevano le regioni ricorrenti, ma ha individuato sette specifici profili di illegittimità. Uno degli aspetti più critici ha riguardato la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (i Lep), quell’insieme di servizi fondamentali che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Chi ha sostenuto le ragioni del referendum come il Pd e gli altri partiti del campo progressista, di fronte all’inammissibilità dichiarata lunedì, chiama in causa proprio la pronuncia dello scorso mese di novembre. La legge Calderoli, dicono, è stata svuotata al punto che rimane solo la previsione di autonomia contenuta nell’articolo 116, terzo comma. Un aspetto che nei giorni scorsi aveva evidenziato anche Ivo Rossi, uno dei maggiori esperti di autonomia di cui si avvale il Pd.
Il Veneto era stata l’unica regione a costituirsi contro il referendum, e infatti lunedì a Roma erano presenti anche i legali che hanno istruito la pratica.
«Capitolo chiuso sulle dispute referendarie» ribadisce ora Zaia. «Per quanto ci riguarda il lavoro non si è mai fermato, nella certezza che le nostre aspirazioni erano in piena aderenza con la Carta fondamentale della Repubblica».
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