Il primo morto di Covid a Vo’: 5 anni dopo il dolore non si cancella

Il 21 febbraio 2020 morì Adriano Trevisan, fu il primo decesso in Italia per il Coronavirus. Vo’, in provincia di Padova, divenne zona rossa. L’ex sindaco Martini: «Mi sono battuto per anni, mai avuto alcun riconoscimento»

Enrico Ferro
I militari all'ingresso di Vo', il paese in provincia di Padova dove si registro il primo morto di Covid

«A volte penso che il Covid aspettasse proprio me». Vo’, provincia di Wuhan. Sono passati cinque anni da quando sulla mappa del mondo intero si è illuminato un puntino rosso su un piccolo paese abbarbicato sui colli Euganei, in provincia di Padova.

Tutti guardavano alla Cina, dove un nuovo virus stava mietendo vittime da settimane, e invece l’incubo globale della pandemia si è materializzato in una locanda di paese, dove si giocava a carte e si bevevano bianchetti.

Il sindaco farmacista

Giuliano Martini, il farmacista del paese, cinque anni fa era anche il sindaco di Vo’.

«Avevo appena iniziato il mio terzo mandato, chi poteva immaginare tutto ciò che è accaduto poi», si chiede ancora oggi. E il suo tono di voce, la sua postura, rivelano lo stato d’animo di un uomo che sente ancora tutta la responsabilità sulle sue spalle.

Giuliano Martini, il farmacista del paese, nel 2020 era anche il sindaco di Vo’

«Ero il sindaco ma sono anche il farmacista del paese. E a Vo’ il farmacista è qualcosa di più di uno che ti vende le medicine».

I compaesani lo fermavano in piazza per le strade da riasfaltare, fino a che il 21 febbraio del 2020 la storia si è fermata lì, dove per la prima volta in Italia è morta una persona di Covid. Mattia Maestri, il paziente 1 di Codogno, era ricoverato da giorni in gravi condizioni.

Il primo morto italiano

Ma il primo decesso in assoluto è stato quello di Adriano Trevisan, 78 anni, uno degli anziani habitué della Locanda al Sole. Giocava a carte anche lui, beveva qualche calice di bianco con gli amici. La sua vita scorreva lenta, tra bar, casa e qualche battuta di pesca. Un ex impresario edile, un pensionato come tanti.

Adriano Trevisan con la figlia Vanessa
Adriano Trevisan con la figlia Vanessa

Ma qualche giorno prima di quel 21 febbraio era finito in terapia intensiva all’ospedale di Schiavonia, con i polmoni già mezzi bruciati dal virus di Wuhan. Con la sua morte è cambiata la vita di molti. Lui venne sigillato in uno scompartimento dell’obitorio e subito decisero di chiudere l’ospedale di Schiavonia, per evitare che possibili altri contagiati potessero uscire. Poco dopo le sette di sera di quel giorno la giunta comunale si riunì d’urgenza in municipio, metà assessori erano positivi ma ancora non lo sapevano. Decisero di firmare un’ordinanza per la chiusura della Locanda al Sole, dove le autorità sanitarie avevano localizzato il contagio fatale. Il locale, all’epoca, era gestito da cinesi.

Quelli erano i giorni del Carnevale e di lì a poco, con un provvedimento senza precedenti, chiusero i festeggiamenti anche a Venezia.

La figlia

Vanessa Trevisan, la figlia di Adriano, a Vo’ era stata anche sindaca. Ha sofferto molto per la morte del papà e gli occhi dell’Italia intera su un uomo che improvvisamente è diventato un numero, hanno contribuito ad acuire un dolore già enorme. Ancora oggi prova a voltare pagina ma ogni 21 febbraio la ferita torna a sanguinare.

«Preferisco non parlarne», dice sintetica e ringrazia, con pacatezza e dignità. Vanessa Trevisan vive con il rammarico di non essere riuscita a salutare il padre per l’ultima volta. Era iniziato tutto come una normale influenza. Poi il ricovero, la chiusura dell’ospedale, la chiusura del paese, la chiusura del Veneto, la chiusura di tutte le regioni, i dpcm, le misure restrittive, la distanza sociale, le scuole chiuse, la didattica a distanza, i macabri contatori delle morti, la musica dai balconi.

La zona rossa

E a Vo’, che fu zona rossa, c’è anche un’altra figlia che ancora non ha sconfitto quel trauma. È Manuela Turetta, figlia di Renato, finito nei registri di quei giorni come il secondo contagiato, amico di Trevisan. Giocavano a carte insieme.

Renato Turetta con la figlia
Renato Turetta con la figlia

L’immagine di Whatsapp è quella che si sceglie per rappresentare la propria persona, lo stato d’animo. Manuela ha ancora la foto del papà con la divisa da alpino e, in calce, una didascalia: “manchi”. «Provo a guardare avanti, ma ovviamente il dolore è ancora tanto», ammette, poco prima di iniziare il turno in fabbrica. Quando il papà è morto lavorava in una enoteca sui colli. Poi ha deciso di cambiare anche lavoro. Sempre nel tentativo di andare avanti, per dimenticare la sofferenza di quei giorni. C’è un prima e un dopo anche per chi ha combattuto corpo a corpo con il Covid.

Anche Giuliano Martini ha scelto una foto particolare per il suo profilo Whatsapp: è una foto di lui con la fascia tricolore da sindaco e la mascherina Ffp2. Come se il tempo si fosse fermato in quella dimensione.

«Abbiamo chiuso il paese e siamo ancora un caso unico a livello scientifico», ricorda. «Ma c’è una cosa che mi fa stare un po’ male: in questi anni, dopo tutto quello che ho fatto, l’unico riconoscimento che ho ricevuto è stato quello del Rotary». Poi si pente. «Ma non lo scriva, per favore. Anche io devo provare ad andare avanti, a lasciarmi alle spalle la pandemia». —

 

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