Tra stereotipi e pregiudizi, così nasce il gender gap sul lavoro: «Per le aziende una dipendente incinta è un problema»
Come risolvere la diseguaglianza tra uomo e donna? L’abbiamo chiesto alla sociologa Saraceno che ha dato tre vie: «Un riequilibrio è possibile»
Un problema da affrontare sul piano culturale, per favorire finalmente un salto di qualità nella mentalità di un Paese in cui «una dipendente che rimane incinta rappresenta ancora un problema per il datore di lavoro», e un padre che resta a casa per accudire i figli «viene definito spregiativamente “mammo”». Ne è convinta Chiara Saraceno, una delle sociologhe italiane più note e apprezzate, già consulente del governo Draghi: la questione del divario salariale tra uomini e donne va inserita in una cornice ampia, che abbraccia anche cultura, stereotipi, abitudini sedimentate di un’Italia che sembra arrancare rispetto agli altri Paesi europei.
Il gender gap medio sulle retribuzioni settimanali in Italia è più del doppio rispetto alla media dell’Ue. Quali sono i fattori che alimentano questa arretratezza?
«Innanzitutto, a confronto con il resto d’Europa, sono meno le donne occupate a causa dei ben noti problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia che sono tipici di una cultura italiana, anche imprenditoriale, quantomeno molto conservatrice, se non vogliamo dire maschilista. Per certi datori di lavoro la prospettiva che una lavoratrice possa restare incinta è ancora un problema. E poi ci lamentiamo se c’è la crisi demografica e non si fanno più figli. Una mentalità che resiste anche e soprattutto nel mondo delle piccole e medie imprese, ovvero la parte più importante della nostra economia».
Il mondo del lavoro è ancora così segregato?
«Non tanto come lo era negli anni Settanta e Ottanta, certo, ma lo squilibrio è tuttora evidente. Il lavoro femminile si concentra nei servizi di assistenza e cura della persona, nell’insegnamento, che in Italia non è certo ben pagato. Ed è anche una questione di scelte formative delle donne, che restano squilibrate rispetto a quello che succede nel resto d’Europa. Mediamente sono più istruite rispetto agli uomini, ma c’è ancora una concentrazione sproporzionata nelle facoltà umanistiche, a discapito di quelle scientifiche. E sappiamo bene che il mercato del lavoro offre compensi più ricchi nell’ambito delle discipline Stem».
Si può parlare di discriminazione?
«Direi di sì, l’impressione è che in certe professioni ci sia ancora un po’ di discriminazione. Di sicuro non è un problema di minori capacità. Semplicemente le donne tendono a orientare le proprie scelte pensando già alla necessità di conciliare lavoro e impegni familiari, rassegnandosi a guadagnare meno, in cambio di più tempo per accudire i figli e di maggior flessibilità. Altri Paesi europei, però, dimostrano che riequilibrare la situazione è possibile. Certo, bisogna fare una salto di qualità dal punto di vista culturale, della mentalità».
E come si può favorire questo salto di qualità?
«Si può e si deve partire già dal periodo scolastico, aiutando ad orientarsi verso scelte formative meno stereotipiche. Non significa che tutte le ragazze, d’ora in poi, debbano iscriversi a ingegneria, ma va superato il pregiudizio sul fatto che ci siano facoltà e professioni più adatte o meno adatte in base al genere. Il ragionamento vale anche per gli uomini che possono essere altrettanto adatti a svolgere attività di accudimento familiare».
Rispetto al passato, in questo senso, un miglioramento è già visibile?
«Si, sicuramente le cose sono un po’ migliorate. Fino a non molti anni fa i padri sembravano quasi disinteressarsi dell’accudimento dei figli, soprattutto nei primi mesi di vita. Il modello maschile, seppur lentamente e non in modo uniforme, sta cambiando. Sempre più giovani uomini si mostrano disponibili ad accudire i figli e a fare scelte professionali che lascino più tempo da dedicare alla famiglia. Ma ancora non basta».
Cosa serve, allora?
«Serve migliorare le condizioni del congedo parentale, incentivando anche i datori di lavoro a pagare di più perché attualmente, a frenare il ricorso al congedo in particolare per i papà, è il fatto che viene pagato troppo poco. Poi, puntare su una contrattazione migliore e sull’offerta si servizi aggiuntivi integrativi. Ma, tornando a quanto ho già rimarcato, bisogna lavorare sul piano culturale. Un esempio su tutti: oggi si sente e si legge ancora la definizione di “mammo” per i padri che restano a casa, che io trovo non solo profondamente stereotipata, ma anche spregiativa. Come se l’accudire i figli non fosse considerabile parte integrante dell’essere uomo e padre, tanto da dover storpiare il termine mamma al maschile». —
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