Ricordo, dunque sono: sei storie per non dimenticare mai l’Olocausto

Da Belluno a Trieste, il racconto di figli, nipoti e mogli dei sopravvissuti. Voci potenti e preziose raccolte e narrate da chi vuole che il passato non venga dimenticato.

Barzanti, Dal Mas, Ducoli Francesconi, Pacino, Rigo

Le loro voci, spesso un sussurro spezzato dalla commozione, hanno per anni raccontato l’orrore dei campi di concentramento. Loro, i sopravvissuti, quelli che hanno visto con i loro occhi e provato sui loro corpi la brutalità dell’essere umano. Loro che hanno impresso la Shoah nei ricordi e nella pelle con un numero indelebile che cancellava l’identità. Stiamo parlando di Enzo, Emilio, Giuseppe, Dino, Mario, Zaccaria e Margherita
In questo speciale, in occasione dell’80esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, attraversiamo il nostro territorio per raccogliere la loro testimonianza attraverso le voci delle mogli, dei figli, dei nipoti e dei parenti. 

Storie che potete vedere qui nella mappa da navigare o leggere in basso, una dopo l’altra. Voci potenti e preziose raccolte e narrate da chi vuole che il passato non venga dimenticato.

Armando e il racconto dei genitori sopravvissuti ad Auschwitz

Armando Chaim, 76 anni, ha dedicato anni a testimoniare nelle scuole la storia dei suoi genitori, Zaccaria e Margarita, entrambi sopravvissuti ad Auschwitz. Zaccaria, nato nel 1909 a Corfù, è stato deportato con la prima moglie e il figlio Leone, entrambi morti nel lager. Margarita, nata nel 1922, ha subito la stessa sorte con il primo marito e i fratelli. Dopo la liberazione, si conobbero ad Atene, si sposarono nel 1946 e si trasferirono a Trieste. Fin da bambino Armando ha vissuto i racconti delle atrocità: la fame, le impiccagioni e le dure condizioni di lavoro nei campi

Ha raccontato per anni nelle scuole dei suoi genitori sopravvissuti ad Auschwitz: «Ma ora non lo faccio più»
La redazione
La foto del 1949: Zaccaria e Margarita Chaim con i figli Leone e Armando

La storia di Enzo Tazzara, deportato nel campo di Kraków-Płaszów 

Enzo Tazzara, nato a Belluno nel 1923, è stato deportato nel campo di concentramento di Kraków-Płaszów durante la Seconda Guerra Mondiale. Assegnato il numero 47293, ha perso la propria identità personale ed è stato costretto a lavori forzati in una miniera di carbone in Alta Slesia, affrontando fame, violenze e condizioni estreme.

Per ottenere una tregua, si è ferito gravemente alla mano, finendo in una baracca per malati di tubercolosi, dove è sopravvissuto miracolosamente. Deportato dopo aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, ha subito un viaggio infernale attraverso l’Europa.

Enzo, come racconta la figlia, ha deciso di trasmettere la sua storia solo dopo molti anni, tramandando valori di giustizia e solidarietà senza mai esprimere odio verso i suoi carcerieri. Liberato dall’Armata Rossa nel 1945, fu rimpatriato e ricoverato per riprendersi. Nonostante le sofferenze, visse con amore per la vita, insegnando rispetto e resilienza alle sue tre figlie.

La figlia del soldato Rampazzo: «Mio padre, tre anni da internato»
La redazione
Mario Rampazzo

Dino Burelli deportato a Buchenwald e Langenstein-Zwieberge

Dino Burelli, giovane medico di 23 anni, è stato catturato dai tedeschi nell'agosto del 1944 dopo aver aiutato cinque aviatori americani feriti. Deportato a Buchenwald e poi a Langenstein-Zwieberge, ha vissuto terribili esperienze nel campo di concentramento, ma non ne parlò mai fino agli anni '70, quando raccontò la sua storia a suo figlio e amici.

La sofferenza più grande per lui fu essere privato della propria identità, quando venne marchiato con un numero: 21318.

Dopo quella serata, si iscrisse all'Associazione Nazionale degli Ex Deportati e, insieme ad altri ex deportati, fondò un'associazione per creare un piccolo memoriale al campo dove aveva vissuto. Iniziò anche a partecipare a cerimonie di commemorazione e a parlare nelle scuole per trasmettere la sua esperienza.

Ha scritto un libro dal titolo "Mamma sto bene, non mi sono fatto niente", ripetendo alla madre, quando tornò a casa, la frase che le aveva detto dopo la sua liberazione, dato che era stato dato per morto. La sua testimonianza riguardava soprattutto l'importanza della libertà, del rispetto degli altri e la necessità di evitare le guerre.

Deportato a Buchenwald per aver curato e aiutato gli avieri americani: la storia di Dino Burelli
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Claudio Burelli con suo padre Dino nel 2007 a Langenstein- Zwieberge

Anna, partigiana di 97 anni: «Ho rischiato, ma non potevo girarmi dall’altra parte»

Anna Granzotto, nata nel 1927, divenne partigiana a soli 17 anni per combattere le ingiustizie della Seconda Guerra Mondiale. Dopo l’armistizio del 1943, la sua famiglia aiutò i militari italiani in fuga, offrendo loro cibo e rifugio. Convinta da un ex compagno di scuola, Anna si unì alla Brigata Mazzini, ospitando partigiani nel fienile di casa, portando loro cibo e utilizzando segnali per avvertirli dei movimenti nemici. In Piemonte, nel 1944, il fratello di suo padre fu ucciso, rafforzando la sua determinazione. Anna rischiò la vita distribuendo stampa clandestina e assistendo i partigiani nascosti in gallerie della Prima Guerra Mondiale.

Suo marito Emilio fu deportato a Mauthausen, dove subì lavori forzati e sfamò altri prigionieri rischiando la vita. Pesava 37 chili al momento della liberazione. Un prigioniero russo, salvato da Emilio, gli donò un anello forgiato con il ferro delle bombe, simbolo di un legame indissolubile. Anna trasmette ancora oggi valori di libertà, democrazia e amore tra le persone, sottolineando l’importanza di votare e di lottare contro ogni forma di oppressione.

Anna, partigiana di 97 anni: «Ho rischiato, ma non potevo girarmi dall’altra parte»
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Anna Granzotto, 97 anni

Gianluigi Modena: «Sono rinato quando ho scoperto che mio nonno era morto in guerra» (Venezia)

Gianluigi Modena, 60enne di Pernumia, ha scoperto nel 2001 una storia familiare che ignorava. Suo nonno Giuseppe Modena, socialista e di origini ebraiche, visse a Venezia con la moglie Vittoria e i figli prima che il fascismo devastasse la loro vita. Giuseppe, tipografo e oppositore del regime, fu arrestato più volte per la sua ideologia. Nel 1943, la famiglia si divise: la moglie e i figli si rifugiarono a San Polo e poi a Piove di Sacco, mentre Giuseppe venne deportato a Mauthausen nel 1944. Morì nel campo satellite di Melk nel gennaio 1945, poco prima della liberazione.

Gianluigi apprese questa storia grazie a un amico della Comunità ebraica di Padova. Suo padre, reticente per anni, pianse quando finalmente ne parlarono. Scoprire le origini e il dramma del nonno fu per Gianluigi uno shock, ma anche un modo per ricostruire il legame con Venezia, in particolare con campo della Maddalena, luogo della casa dei nonni, dove ora si trova una pietra d’inciampo in memoria di Giuseppe. Questa scoperta ha chiuso un cerchio della sua identità.

Gianluigi Modena: «La storia di mio nonno Giuseppe, oppositore politico»
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Gianluigi Modena, nipote di Giuseppe, oppositore politico

La figlia del soldato Rampazzo: «Mio padre, tre anni da internato»

Mario Rampazzo era nato nel 1920 ad Albignasego. Stava prestando servizio come guardia di frontiera a Fiume quando, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, fu catturato dai tedeschi e deportato nei campi di concentramento nazisti come Internato Militare Italiano (Imi).
Ha trascorso tre anni in diversi lager, tra cui Wistritz Stalag IV C nell'ex Cecoslovacchia, ha subito lavori forzati e privazioni estreme. 
Nonostante le sofferenze, Rampazzo ha insegnato alla figlia Luisa l'importanza di non odiare e di non avere paura, sottolineando che l'odio è all'origine di tutti i conflitti. E proprio Luisa ha raccolto il testimone delle sue parole: oggi come guida volontaria al Museo Nazionale dell’Internamento di Padova continua a condividere la storia del papà 

La figlia del soldato Rampazzo: «Mio padre, tre anni da internato»
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Mario Rampazzo

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