La percezione del pericolo: cosa ci insegna la tragedia del Natisone

La dinamica dell’incidente ha evidenziato una serie di elementi che riguardano non solo il comportamento umano di fronte al rischio, ma anche la comprensione e la gestione del pericolo nell’ambiente circostante

La redazione

La tragedia del Natisone, in cui morirono Patrizia Cormos, Bianca Doros e Cristian Molnar, travolti dal fiume il 31 maggio scorso, è un evento che ha segnato profondamente la memoria collettiva e sollevato importanti riflessioni sul tema della percezione del pericolo, sia a livello individuale che collettivo.

In quel tragico episodio, tre giovani ragazzi persero la vita mentre cercavano di attraversare il fiume Natisone in una zona che, purtroppo, si rivelò particolarmente insidiosa.

La dinamica dell’incidente ha evidenziato una serie di elementi che riguardano non solo il comportamento umano di fronte al rischio, ma anche la comprensione e la gestione del pericolo nell'ambiente circostante.

La percezione del pericolo: cosa ci insegna questa tragedia?

La tragedia del Natisone offre lo spunto per riflettere su come la percezione del pericolo possa essere distorta o minimizzata da diversi fattori psicologici e sociali.

La percezione del rischio è una funzione complessa che non dipende solo dalla realtà oggettiva del pericolo, ma anche da una serie di influenze emotive, cognitive e culturali.

Sottovalutazione del rischio

La tragedia evidenzia come la sottovalutazione del pericolo sia uno degli aspetti centrali nella dinamica del rischio.

I protagonisti di questo incidente avevano sicuramente una percezione distorta della pericolosità del fiume, che appariva più sicuro di quanto non fosse in realtà.

A volte, il desiderio di avventura e il senso di invulnerabilità tipico della giovinezza possono portare a minimizzare i pericoli concreti, come quelli legati alle condizioni di un fiume in piena o alla corrente forte.

Questo fenomeno si ripete spesso in incidenti simili: la fiducia nelle proprie capacità, o il desiderio di vivere un’esperienza “estrema”, può indurre a ignorare segnali di pericolo.

Eccessiva fiducia nelle proprie capacità

Un altro aspetto cruciale è l’eccessiva fiducia nelle proprie capacità fisiche e mentali, un fattore che spinge le persone a prendere rischi senza considerare la gravità delle conseguenze.

La percezione di essere preparati a fronteggiare qualsiasi situazione, come nel caso di ragazzi abituati a frequentare ambienti naturali, può far apparire il rischio come qualcosa di remoto o controllabile.

Tuttavia, la natura è imprevedibile e, in situazioni come quella del Natisone, la forza della corrente o il mutamento delle condizioni meteorologiche possono trasformare in un incubo quella che sembrava una semplice escursione.

Mancanza di informazione e preparazione

La tragedia pone anche l'accento sulla necessità di una corretta informazione riguardo ai pericoli specifici degli ambienti naturali, specialmente in contesti poco conosciuti o considerati “sicuri”.

La mancanza di consapevolezza riguardo ai rischi ambientali, come le condizioni del fiume e il comportamento della corrente, può essere fatale.

Un altro fattore rilevante è la preparazione: è fondamentale avere una formazione adeguata sui rischi naturali e, nel caso di escursioni in luoghi pericolosi, sapere come comportarsi in caso di emergenza.

Il ruolo delle emozioni e della percezione sociale del pericolo

La tragedia del Natisone solleva anche il tema delle emozioni che influenzano la nostra percezione del pericolo. La paura, per esempio, è un'emozione che spinge spesso le persone a evitare situazioni rischiose.

Tuttavia, in molti casi, le emozioni di gruppo, come l'entusiasmo collettivo e il desiderio di divertirsi, possono sopraffare il senso del pericolo.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si è in gruppo, poiché la presenza degli altri può ridurre la percezione del rischio individuale. Inoltre, la socializzazione con altri giovani che potrebbero condividere lo stesso desiderio di avventura può portare a sottovalutare i pericoli, rendendo più difficile fermarsi a riflettere sul rischio reale.

Le lezioni da trarre

I fatti del Natisone insegnano che è fondamentale sviluppare una percezione più accurata del pericolo, basata su una valutazione realistica dei rischi e su una preparazione adeguata.

È essenziale evitare l’approccio fatalista che tende a ignorare o minimizzare i segnali di pericolo, così come l’approccio eccessivamente avventuroso che spinge a cercare emozioni forti senza considerare le conseguenze.

Un altro insegnamento riguarda l'importanza di non trascurare mai la prudenza. La paura non è necessariamente una sensazione negativa, ma può servire come un potente meccanismo di difesa, che aiuta a evitare decisioni pericolose.

In questo contesto, la tragedia del Natisone può essere, quasi paradossalmente, un’opportunità per sensibilizzare maggiormente la società, in particolare le nuove generazioni, sulla necessità di sviluppare un atteggiamento di maggiore consapevolezza riguardo ai pericoli presenti nella natura e di non lasciare che l’emotività o la voglia di apparire coraggiosi prevalgano sulla ragione.

In conclusione, la tragedia del Natisone ci ricorda che il rischio è sempre presente, ma che una corretta percezione del pericolo può fare la differenza tra la vita e la morte.

Affrontare la natura con rispetto e preparazione, piuttosto che con leggerezza e fiducia eccessiva nelle proprie capacità, è fondamentale per evitare tragedie che potrebbero essere prevenute.

Il commento. L'errore delle sentenze anticipate

Patrizia, Bianca e Cristian si abbracciano. E sperano che qualcuno arrivi a salvarli. Chiedono aiuto, allertano i soccorsi, non immaginano possa arrivare il buio da lì a poco.

Le acque del Natisone salgono e Patrizia implora aiuto alla centrale operativa Sores che si occupa di smistare le chiamate.

Sulle sponde del Natisone – che si fa sempre più grigio, impetuoso e minaccioso – la gente osserva e vorrebbe tender le mani, ma è consapevole che non si può andare contro la forza di un fiume arrabbiato. Troppo rischioso. L’imponderabile, la tragedia, il dolore, la rabbia.

E tutti, in quei giorni, quando ancora si cercava tra gli antri del torrente il corpo di Cristian, dopo che erano riaffiorati quelli di Bianca e Patrizia, a chiedersi se poteva esser fatto qualcosa di più, se c’era stata la tempestività necessaria per salvarli.

E dunque controlli sulle telefonate partite dagli smartphone dei ragazzi, le risposte degli operatori, i protocolli, la burocrazia. Ecco, appunto, la burocrazia.

I codici e i protocolli che un operatore deve rispettare e nel contempo valutare come e quando avviare l’intervento che salva le vite.

Dopo mesi di indagini gli indagati sono quattro, questo passaggio servirà – forse – a far luce su quel buio. Forse. Sottolineato che indagati non significa colpevoli, sono convinto che il personale incaricato dell’emergenza abbia agito in totale buona fede, impossibile anche solo poter pensare il contrario.

Tuttavia è già cominciata la corsa a dare giudizi. Sui ragazzi che non dovevano stare lì. Sui soccorritori, che avrebbero dovuto decidere diversamente. Sui loro superiori, che avrebbero dovuto controllarli. Sulla magistratura che indaga. Comprensibile.

Distinguiamo però i giudizi morali, inquinati dal coinvolgimento e dal sentimento, dal doveroso percorso della magistratura.

Con immutata solidarietà ai soccorritori che ogni giorno mettono a repentaglio le loro vite, rischiando anche provvedimenti giudiziari.

(Paolo Mosanghini)

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