Nanosatelliti, la prima costellazione europea è spinta da scienziati di Udine e Trieste

L’obiettivo è studiare i lampi di raggi gamma fino ai confini dell’universo osservabile. Costo di 12 milioni

Giulia Basso
L’obiettivo è studiare i lampi di raggi gamma fino ai confini dell’universo osservabile
L’obiettivo è studiare i lampi di raggi gamma fino ai confini dell’universo osservabile

«Sono giornate che sto vivendo con un mix di emozioni contrastanti. Da un lato la soddisfazione di vedere un progetto che, dopo anni di lavoro, finalmente va a compimento. Dall’altra la consapevolezza che il momento davvero cruciale arriva ora: lanciamo i satelliti ma dobbiamo vedere se funzioneranno davvero». È con queste parole che Fabrizio Fiore, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Trieste e coordinatore scientifico della costellazione Hermes Pathfinder, descrive lo stato d’animo a pochi giorni dal lancio della missione pionieristica che porterà in orbita sei piccoli satelliti scientifici per studiare i lampi di raggi gamma fino ai confini dell’universo osservabile.

I sei nanosatelliti, ciascuno grande come la scatola di una bottiglia di champagne, che compongono la costellazione Hermes Pathfinder verranno lanciati il 5 marzo dalla base di Vandenberg, in California, a bordo di un razzo Falcon 9 di SpaceX, per poi essere rilasciati in orbita dallo “space-tug” Ion della società italiana D-Orbit. Fiore racconta la sfida tecnologica e scientifica di questa missione rivoluzionaria, che metterà in orbita la prima costellazione di satelliti scientifici europea, un progetto dal costo contenuto che potrebbe cambiare il modo di fare ricerca spaziale.

Qual è l’aspetto più innovativo di Hermes Pathfinder?

«È la prima costellazione di sei nanosatelliti scientifici “made in Europe”. È un progetto finanziato dall’Asi e in parte dalla Commissione europea tramite un grant Horizon 2020, che mette insieme circa una trentina tra università e istituti di ricerca, tra cui Inaf, Fondazione Bruno Kessler e Politecnico di Milano, ma anche Università di Trieste e di Udine, e circa 150 persone. La sfida più grossa è l’architettura distribuita della costellazione, ma anche l’utilizzo di strumentazione miniaturizzata e un concetto di sviluppo del satellite “modulare” e molto diverso dai normali satelliti».

Perché questo approccio è rivoluzionario?
«Per i cubesat utilizziamo componenti “off the shelf”, derivate dall’elettronica o dalla meccanica dell’automotive, e adattate per lo spazio. Ciò abbatte i costi e permette di fare missioni anche a piccoli gruppi di ricerca: l’intera missione Hermes Pathfinder costa circa 12 milioni di euro, mentre un satellite scientifico normale può arrivare a 500 milioni».

Un approccio più economico comporta rischi maggiori?
«Assolutamente sì, accettiamo rischi che le missioni spaziali normali non accettano. I cubesat hanno un rischio di fallimento del 20-25%, ma il vantaggio è di accorciare drasticamente i tempi di sviluppo e di ottenere un progetto facilmente incrementabile».

Quale sarà l’obiettivo scientifico della missione?
«Questa costellazione di telescopi spaziali sarà in grado di scansionare simultaneamente una grande area di cielo: vogliamo localizzare i lampi di raggi gamma utilizzando la tecnica della triangolazione, la stessa tecnica con cui negli anni ’60 gli americani scoprirono i gamma ray burst mentre cercavano di rilevare test nucleari russi».

Cosa succederà subito dopo il lancio?
«Il lancio è previsto per le 7.47 ora italiana del 6 marzo. Un’ora dopo verrà rilasciato Ion, il “rimorchiatore spaziale” della ditta italiana D-Orbit che contiene i nostri satelliti. Quindi si procederà al rilascio graduale dei satelliti, al ritmo di uno al giorno».

Qual è la fase più critica dopo il rilascio?
«Il satellite deve accendersi automaticamente, aprire i pannelli solari e l’antenna con cui comunica a terra, e quindi inviare un messaggio a terra per dire “sono vivo”. Noi dobbiamo registrarlo e cominciare a mandargli dei comandi. Questa è l’operazione più critica in assoluto. Poi segue la fase di commissioning, in cui si prova come funzionano tutti i sottosistemi. Se tutto va bene speriamo di accendere il payload per il rilevamento di raggi x e gamma ad aprile. Ma finché non completiamo questa fase saranno notti agitate».

Qual è il coinvolgimento del Friuli Venezia Giulia in questo progetto?
«Abbiamo messo un sacco di sforzi nel far crescere i giovani scienziati: nel progetto ho coinvolto alcuni dottorandi e studenti legati alle Università di Trieste e Udine. È un progetto su cui si è fatta le ossa un’intera generazione di persone.

Giuseppe Dilillo, ad esempio, che ora lavora all’Asi, ha fatto la tesi all’Università di Trieste e il dottorato a Udine, sviluppando software innovativo per la rivelazione di transienti. Giulia Baroni, dottoranda di UniTs, lavora con me alla calibrazione e all’analisi dei dati. E poi vorrei citare Giovanni Della Casa e Riccardo Crupi, che hanno fatto il dottorato a Udine, Wladimiro Leoni, laureato a UniTs, e Sara Trevisan, al secondo anno di dottorato a Trieste».

Come Hermes contribuirà alla ricerca multi-messaggera, insieme ai rilevatori di onde gravitazionali Ligo e Virgo?
«Useremo la costellazione insieme al resto della strumentazione in orbita per studiare le controparti magnetiche di eventi gravitazionali. Abbiamo progettato Hermes per sfruttare il momento in cui Ligo e Virgo sono attivi. Se dovesse verificarsi un evento gravitazionale importante, come quello del 17 agosto 2017, vogliamo capire se siamo in grado di localizzarlo».

Qual è il futuro di questa tecnologia?
«Hermes è un pathfinder, una dimostrazione di fattibilità per poi costruire un osservatorio vero e proprio che sfrutti la sua innovazione, l’architettura distribuita e l’uso di satelliti piccoli e poco costosi».

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