L’ascensore rotto: massacrato per sbaglio

Sliding doors: la tragica storia di Lorenzo Nardelli, 32 anni, massacrato di botte al termine di una serie di coincidenze nefaste in un condominio-alveare di Mestre

Roberta De Rossi

Sliding doors: di qua la vita di una serata di sesso senza impegno; di là la morte. Di qua una serata di cibo e (molta) grappa per due operai edili; di là, il carcere. Per i prossimi vent’anni.

Lorenzo Nardelli, 32 anni, è morto massacrato di botte, in una notte d’agosto del 2023, per la brutale violenza di due cugini ubriachi. Una morte accompagnata anche da una incredibile, tristissima serie di coincidenze nefaste: decisioni dell’ultimo minuto, porte dimenticate socchiuse, un ascensore rotto. Se un solo fatto, tra questi, fosse andato diversamente – quel 9 agosto – forse sarebbe vivo.

Il che rende, se possibile, ancor più tragico il suo destino: ucciso a 32 anni a pugni e calci da Radu e Marin Rusu, che se lo ritrovano in casa, lo scambiano per un ladro e non si fermano davanti a nulla. Né alle sue grida di aiuto, né alle sue richieste sempre più flebili di avere pietà: «Basta, basta».

Così ha stabilito in primo grado la Corte di Assise, che li ha condannati a 24 e 21 anni di carcere per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà (l’appello arriverà).

Sono le 22.13, quando Lorenzo decide di telefonare a una escort che riceve in un appartamento, al terzo piano del condominio Bandiera di Mestre: “Sei libera?”.

“Sì”, si illumina il cellulare.

Non si erano mai incontrati prima. Una decisione dell’ultimo minuto di lui, che trova lei libera: prima coincidenza. Alle 22.16 Nardelli le scrive «Mi vesto e parto» e subito dopo le manda una foto di sé, in primo piano: «Questo sono io e comunque faccio il camionista e ho 32 anni amore», si presenta.

Alle 22.50 una telecamera del piazzale lo riprende posteggiare la sua Opel bianca sulla strada del condominio. Scende dall’auto e chiama al telefono: «Sono sotto». Lei - come poi testimonierà – gli spiega che deve prendere la Scala A e salire fino al 3 piano: «Non prendere l’ascensore».

L’alveare che racchiude mille vite

Droga party sulle scale delle entrate dell’edificio, consumatori che si fanno di ogni genere di stupefacente incuranti di anziani bambini e famiglie, bottigliette con tanto di pipa utilizzare per il crack abbandonate ovunque, chiazze di sangue.

Il condominio Bandiera, un tempo tra i più eleganti della città, affaccia da un lato su via Cappuccina, dall’altro su via Rampa Cavalcavia. Si trova a pochi passi dalla stazione di Mestre, in una zona “rossa” della città negli anni diventata sempre più multirazziale e multietnica, oltre che multiculturale. Basta guardare i campanelli, dai cognomi impronunciabili: molti sono asiatici, tanti cinesi, infine est europa. E anche i nomi smaccatamente italiani, sono in affitto o subaffitto a stranieri.

E poi ci sono i nudi numeri civici, che stanno a indicare le locazioni turistiche, affittanze brevi a basso prezzo per chi vuole spendere poco o necessita di un tetto provvisorio, che stanno prendendo sempre più piede in terraferma. Negli ultimi anni, il condominio è diventato famoso per gli episodi legati a microcriminalità, degrado, violenza.

Gli avvisi ai condomini appesi all’interno del palazzo, sono scritti in svariate lingue e l’anno passato, si faceva menzione della scabbia che circolava. E si invitava all’igiene e alla pulizia. Tra i problemi maggiori c’è quello legato allo spaccio e al consumo di sostanze stupefacenti: in almeno tre occasioni, sbandati e tossicodipendenti si sono introdotti nei magazzini degli ultimi piani, appiccando fuochi per scaldarsi la droga e finendo poi per far andare a fuoco i locali sotto al tetto, involontariamente o con intento doloso, obbligando all'evacuazione di tutti gli abitanti.

Agenzia Candussi, giornalista Baschieri. Cartelli affissi nel sotto portico del condominio Bandiera in via Capuccina 161 Mestre.
Agenzia Candussi, giornalista Baschieri. Cartelli affissi nel sotto portico del condominio Bandiera in via Capuccina 161 Mestre.

 

Il periodo più buio, dopo l’omicidio, è stato quello del superbonus: il grande palazzone è rimasto incappucciato per mesi, incartato nelle impalcature: i malviventi avevano via libera, non visti, tra i passaggi creati per attraversare il grande cantiere.

«Siamo stanchi, abbiamo paura e dobbiamo tutelare le persone fragili che noi stessi seguiamo e abbiamo in carico» scriveva in una nota di un anno e mezzo fa Jessica Morosini di Fondazione Venezia Servizi alla Persona a nome delle 17 persone (tutte donne tranne due uomini) che lavoravano all’interno degli uffici. I lavoratori denunciavano droga party sulle scale delle entrate dell’edificio, consumatori che si facevano di ogni genere di stupefacente incuranti di anziani bambini e famiglie, bottigliette con tanto di pipa utilizzare per il crack abbandonate ovunque, sangue.

Il Servizio aveva firmato petizioni su petizioni, assieme agli altri negozi e attività che insistevano nel complesso residenziale. Con la fine del cantiere, sono state installate telecamere ad alta precisione e punti luce per illuminare i sottoportici del palazzone che fu teatro dell’omicidio Nardelli. I cartelli che indicano la zona videosorvegliata a norma di legge, ci sono e parlano chiaro. E, sostiene chi risiede in zona, la situazione è lievemente migliorata, anche se le frequentazioni rimangono le medesime.

 

“Ma dove sei?”, l’inizio della fine

 

Dunque, la telecamera mostra Nardelli mentre entra nel grande condominio Bandiera: 300 appartamenti. Un alveare che racchiude mille vite, le più disparate: come quella dell’anziana coppia che ha visto trasformare un palazzo per famiglie in un mondo irriconoscibile, con i tossicodipendenti a “bucarsi” davanti al portone.

Alle 23.01, lei gli scrive: “Ma dove sei?!”. Poi convinta si sia trattato di uno scherzo se ne va a letto. Invece, per Lorenzo, è già iniziato l’incubo. Sbaglia scala, si dirige ignaro verso il blocco B (seconda “sliding door”) e prende l’ascensore. Che diventerà la sua tomba. Scende al piano e vede una porta socchiusa. L’interpreta come un invito. Entra, percorre il corridoio e finisce in una camera da letto: ma non c’è lei ad aspettarlo. Si trova davanti due cugini: operai edili, con famiglia, figli, nessun precedente. Il giorno dopo devono ristrutturare la cucina e così mangiano in camera.

La porta aperta: l’ennesima coincidenza fatale. Rasu e Marin avevano portato poco prima giù le immondizie, sono su di giri e non si accorgono di averla lasciata socchiusa. E quando si ritrovano avanti il giovane sconosciuto, scattano come molle convinti si tratti di un ladro.

Storditi dall’alcol non ascoltano le sue richieste di scuse. Radu dirà che Nardelli l’ha colpito per primo come un pugno: il processo lo smentirà. Lorenzo pensa solo a scappare: va verso la porta. Ma non corre giù per le scale: forse l’ennesima scelta che si rivelerà fatale. Davanti a sé trova l’ascensore aperto e vi si infila dentro. Subito dietro lo raggiungono Radu e Marin. Le porte si chiudono di colpo. Poi il massacro. Infine, il silenzio. Alle 23.17 – un’ora dopo essere uscito di casa - Lorenzo Nardelli è morto, come travolto da un Tir.

Il racconto alla polizia

Alle 23.17 due Volanti arrivano al condominio Bandiera, come documentato grazie alle telecamere del sistema di videosorveglianza in gestione alla Polizia Municipale di Venezia, che hanno ripreso anche l'arrivo dell'equipaggio dei Vigili del Fuoco, chiamati alle 23.24 e arrivati in 10 minuti. Solo i pompieri riescono ad allargare, finalmente, le porte dell’ascensore, ricorrendo ai”cuscini wetter”: Nardelli è accasciato a terra in posizione fetale. Morto. Il personale del Suem 118 non può far nulla: è una maschera di sangue e l’ascensore ne è pieno.

I due cugini, Radu e Marin Rusu, che si trovavano ancora all'interno dell'ascensore, vengono arrestati.

Quello che raccontano i capi pattuglia delle due Volanti è drammaticamente singolare.

L’uno dice che al loro arrivo si sentivano ancora “rumori di colpi e urla provenire dai piani sovrastanti, sicché due colleghi sono rimasti giù a controllare che nessuno uscisse dall'ascensore ed egli, insieme al collega capopattuglia della Volante 13, è salito al pianerottolo, dove si è accorto di un appartamento che si presentava con porta spalancata e luce accesa: ritenendo che i rumori provenissero da tale abitazione, è quindi entrato, riscontrando tuttavia che non vi era nessuno all'interno.

Una volta uscito sul pianerottolo, si è accorto che i rumori che ancora udiva provenivano dall'interno dell'ascensore, fermo a livello del piano di calpestio del pianerottolo stesso”. Il poliziotto precisa che quando si è trovato al terzo piano il rumore era divenuto un "vociare", ma al momento dell'accesso al condominio aveva nitidamente sentito il rumore di numerosi colpi: “Non sono stati uno o due, cioè si sentivano proprio dei colpi, non erano sporadici”

A quel punto gli operanti si sono immediatamente qualificati e hanno tentato di capire quale fosse il problema, ma a fronte della reiterata richiesta se ci fosse bisogno di aiuto, le persone dentro l'ascensore continuavano a ripetere di chiamare la polizia.

Utilizzando un attrezzo rinvenuto nell'appartamento, gli agenti sono riusciti ad aprire una fessura di pochi centimetri tra le porte, sufficiente per rendersi conto che vi erano due persone in piedi e una riversa a terra. A fronte della richiesta insistente di dire quale fosse il problema e come stesse la persona a terra, nessuna spiegazione veniva dai due uomini, che continuavano a ripetere di chiamare la Polizia: "Entrambi, sia to sia il collega, mostravamo non solo le divise ma la scritta Polizia: "Siamo qua, la Polizia è qua". Ciononostante, non avevamo nessuna risposta, né tanto meno si vedeva che c'era un aiuto nel provare ad aprire queste porte, che noi tentavamo di aprire".

Il collega puntualizzerà: “Vani erano stati i tentativi di aprire le porte dell'ascensore, anche con l'ausilio di una spranga di ferro usata come leva: il testimone ha spiegato di aver avuto l'impressione che dall'interno dell'ascensore venisse opposta una forza contraria da parte degli odierni imputati: mi rendevo conto che non volevano aprire: ogni volta che riusciva ad allargare le porte dell'ascensore (prima grazie alla pinza poi grazie alla spranga), queste poi si richiudevano”.

Quando i pompieri sono riusciti ad aprire parzialmente quelle porte, Lorenzo Nardelli era morto, viene trascinato fuori: “Solo a quel punto ha potuto osservane il viso: si vedeva che aveva il volto completamente tumefatto, sanguinante, soprattutto a livello degli occhi”.

Un autentico massacro

«Non una semplice colluttazione a cui è seguita la morte di un ragazzo, ma un brutale pestaggio volto non solo ad uccidere la malcapitata vittima, ma - con parole usate da una testimone - “a massacrarla” con efferata crudeltà».

Così scrivono i giudici Stefano Manduzio (presidente) e Francesca Zancan (giudice estensore) nelle motivazioni della sentenza. Lo hanno ucciso a pugni e calci. Frantumandogli la testa, il torace, gli organi. Aveva 32 anni. La Corte ha riconosciuto pienamente valida l’accusa mossa dal pubblico ministero Stefano Buccini: omicidio volontario aggravato dalla crudeltà.

Lo dimostra - proseguono i giudici - «la disamina di tutti gli elementi raccolti in dibattimento, sia di natura medico legale sia di natura circostanziale: eloquenti le testimonianze dei vicini, che hanno tutti sentito, insieme ai fortissimi colpi, Nardelli implorare aiuto».

È stata «un’azione innegabilmente connotata da crudeltà», sottolineano i giudici in sentenza: «La brutale e virulenta azione aggressiva si è sviluppata con atti volti ad infliggere sofferenze non direttamente finalizzate a determinare la morte e che non trovano giustificazione nella concitazione e nella rabbia, né tantomeno nell’alterata condizione mentale degli imputati».

La difesa degli avvocati Giorgio e Luca Pietramala ha invocato l’eccesso di legittima difesa, la convinzione dei due di essersi trovati davanti a un ladro che avesse con sé le chiavi di casa, la non volontà di uccidere, la mancanza di precedenti dei due cugini, il fatto che lavorino come operai a Mestre da tempo, abbiano famiglia. Ma le testimonianze dei medici legali Mazzarolo per la Procura e Cirnelli per la famiglia Nardelli (costituita parte civile con l’avvocato Francesco Livieri) hanno convinto la Corte d’Assise che «entrambi gli imputati hanno preso parte al brutale pestaggio che si è protratto fino a quando è intervenuta la morte di Lorenzo Nardelli».

La mano destra di Radu Rusu scorticata dalla violenza dei colpi inferti, gli ematomi sulle braccia di Nardelli a raccontare che è stato trattenuto da Marin, mentre il cugino picchiava e picchiava ancora, premendogli anche la mano sulla bocca «impedendogli di urlare e chiedere aiuto. Se ne desume che entrambi gli imputati hanno preso parte al brutale pestaggio che si è protratto fino a quando è intervenuta la morte di Nardelli», la testa fracassata, costole rotte, segni di piedi che dimostrano che è stato calpestato.

«Hanno aggredito la vittima una serie di calci e pugni sferrati in rapida successione e con violenza sul ragazzo che non ha avuto la possibilità di difendersi (...) Tutti elementi che inducono a ritenere che gli imputati abbiano agito al fine di uccidere». Gli avvocati Pietramala hanno già annunciato ricorso in appello.

E chi ha visto cosa?

La signora Antonia si trovava da sola nel soggiorno del suo appartamento nel Condominio Bandiera e stava guardando la televisione quando, all'improvviso, ha sentito rumori e grida provenienti dal pianerottolo: “Avevo i miei due gatti sulle ginocchia, sono scattati e sono andati verso la porta e ho sentito delle voci molto alterate, dei rumori”.

La signora Antonia va verso l’ingresso, mette l’occhio allo spioncino e inquadra la porta dell'appartamento di fronte, spalancata. Vede due persone entrare dentro l'ascensore, dove si trovava già un terzo soggetto: “C'era una figura che si stagliava sulla porta e un'altra figura di sfuggita che entrava nell'ascensore; anche l'altra poi è andata verso l'ascensore. Ho sentito dire, una voce che diceva: "scusa non volevo". E’ stato un attimo, perché poi anche l'altro è entrato ed è lì che è cominciata la sarabanda. L'ascensore in quell'attimo si è chiuso di scatto”.

Così racconta seduta al banco dei testimoni davanti alla Corte di Assise. La donna si precipita al telefono e chiama il 113. Sono le 23.04. Nessuno risponde: ma in quel momento altri condomini stanno chiamando il Pronto intervento. Alle 23.17 arriva la pattuglia: è lei stessa ad aprire la porta agli agenti, che ha visto salire dalle scale poiché, dice, “l'ascensore era bloccato al terzo piano".

Chi abita al Bandiera, spesso si era lamentato per la presenza di soggetti tossicodipendenti e sbandati, che stazionavano continuamente nei pressi dell'ingresso del condominio e a volte cercavano di entrare nelle scale. Ma non è questo il caso.

Il signor F.Z. abita in un appartamento all'ottavo piano della scala B. Quella sera era tornato tardi dal lavoro e alle 23 si trovava ancora da solo in cucina, con la televisione accesa, intento a finire la cena: “A un certo punto ho sentito come dei forti rumori metallici ... rimbombi. Ho aperto la porta e ho capito che venivano dalla tromba dell'ascensore: colpi fortissimi all'ascensore, infatti sembrava che volessero come demolirlo. E sentivo anche delle urla, come un litigio".

Anche lui chiama il 113, alle 23.04. In aula precisa di aver sentito colpi e urla e, in particolare, una voce maschile gridare in italiano "aiuto" e "basta", percependo che si trattava di una persona in difficoltà. Al centralino del 113 dice che gli "sembra che si stiano bastonando al terzo piano", "continuano a sbattere. sbattere...".

E aggiunge un particolare inquietante, confermato poi dall’autopsia: quei colpi “sono proseguiti per almeno quindici minuti dopo la chiamata alla polizia”.

C’è poi la giovane E.N., che abitava all'epoca al secondo piano della scala B, nell'appartamento esattamente sotto quello degli imputati. La sera del 9 agosto si trovava in camera da letto: il giorno prima si era rotta un piede, non si poteva muovere dal letto. Anche lei verso le 23 ha sentito le urla strazianti di Nardelli, le richieste di aiuto: “Un aiuto di chi stava venendo massacrato di botte", precisa. Chiama i carabinieri, mentre la ragazza che abitava con lei ha aperto la porta e, senza uscire dall'appartamento, ha visto che l'ascensore andava su e giù senza fermarsi.

S.R. sta facendo il suo lavoro di badante. Pure lei chiama la Polizia (sono le 23.06) . La testimone racconta che urla e rumori si erano a un certo punto, per poi riprendere e protrarsi per almeno quindici minuti dopo la chiamata alla polizia: “Dammi le chiavi”, sente dire da una voce maschile che si esprimeva in italiano, seppure con accento straniero, e un'altra voce - attribuita a soggetto più giovane - che diceva "ti giuro che non ho le chiavi!". Sono Radu Rusu che è convinto che Nardelli sia un ladro con le chiavi di casa e quest’ultimo che giura di non averle e implora “Basta”. “Ho avuto tanta tanta paura", dice la badante

Obiettivo: ricominciare

Lorenzo Nardelli era uscito dal tunnel della fragilità in cui era precipitato nel corso degli anni. Con il tempo aveva trovato un lavoro come autista, nei fine settimana lavorava come apprezzato bagnino negli stabilimenti di Jesolo e il papà Flavio. La sua vita aveva trovato la propria strada. Nei giorni successivi alla tragedia, era emerso sempre più chiaramente a Salzano il ritratto di un uomo di 32 anni che certamente aveva avuto grandi difficoltà nel corso della sua giovane vita, ma che con forza di volontà stava cercando venirne fuori anche grazie alla sua famiglia che, nonostante le tensioni, non lo aveva mai lasciato solo. Anzi, anche se viveva in una casa diversa da quella dei genitori, Lorenzo era seguito e incoraggiato da papà Flavio, dalla mamma e dalla sorella Laura. La famiglia Nardelli che abita sempre a Salzano è considerata molto riservata. Il papà da anni in pensione, ex dipendente delle Ferrovie è stato per tanto tempo un volontario della Protezione Civile comunale. Una persona che si è messa a disposizione della comunità. 

Che il giovane avesse intrapreso un percorso per risolvere i problemi che lo avevano costretto per un periodo a un allontanamento coatto dalla famiglia, lo hanno confermato anche tanti vicini, nell’appartamento di proprietà della famiglia in cui il giovane abitava. Non c’era più stata alcuna lite negli ultimi due anni. Genitori che quando potevano andavano ad aiutarlo e partecipavano alle riunioni di condominio al posto suo. «In paese» spiegano alcuni residenti «Lorenzo non aveva grandi amicizie».

Sliding doors.

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Hanno collaborato Marta Artico e Alessandro Abbadir 

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