Il poliziotto si racconta: «Dalle Br a Peteano, ecco la mia vita a caccia di terroristi»
In pensione il sovrintendente Gianni Cesaro, una vita di servizio tra Parma, Venezia e Padova. Ha indagato su Piazza Fontana, arrestato Pietrostefani, trovato Cicuttini e fatto luce sul rogo della Fenice
Dalla cattura di uno degli autori della strage di Peteano (Gorizia), un pericoloso latitante, a quella dei mandanti dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Dalle indagini sulla strage di piazza Fontana a quelle sull’incendio al teatro la Fenice di Venezia. Fino alla cattura e allo smantellamento delle Nuove Brigate Rosse.
Sono solo alcune delle grandi operazioni a cui il sovrintendente capo coordinatore della polizia di Stato Gianni Cesaro, in pensione dal primo dicembre, ha lavorato nella sua lunga e brillante carriera.
Chi è
Arruolatosi in polizia nel settembre 1983 come agente ausiliario nel II° Reparto Mobile di Padova, il sovrintendente capo coordinatore Gianni Cesaro, ha svolto numerosi servizi di ordine pubblico e di vigilanza anche a obiettivi sensibili.
Nel 1986 è stato assegnato alla Questura di Parma da agente effettivo, prima alla sezione Volanti, per poi essere trasferito alla Digos della Questura di Venezia, dove ha preso parte a numerose attività d’indagine, anche a livello internazionale, alcune delle quali vengono tuttora menzionate essendo parte integrante della storia del nostro Paese durante il periodo post Anni di Piombo.
Dal 2001 è stato trasferito alla Questura di Padova, continuando a svolgere la sua attività nella Digos. Durante la sua carriera ha ottenuto numerosi attestati di gratificazione oltre alla medaglia d’oro per merito e anzianità di servizio.
L’intervista
Sovrintendente Cesaro partiamo subito da una delle indagini più complesse, quella sulla strage di piazza Fontana che ha toccato da vicino il Veneto e di cui a giorni ricorre l’anniversario.
«Il gruppo terroristico responsabile della strage è nato qua, in Veneto, e dunque con il magistrato Grazia Pradella nel 1995 abbiamo lavorato a questo caso, che ho seguito come sezione antiterrorismo della Digos di Venezia. Il gruppo principale, con Delfo Zorzi e suoi collegamenti, partiva da Mestre. Da qui dunque è partita anche tutta l’indagine».
Cosa le è rimasto impresso di questa indagine?
«All’epoca c’era un’attività continua di monitoraggio, con servizi tecnici, di osservazione, pedinamenti, ascolti ambientali e telefonici. È stato un periodo molto impegnativo, sia fisicamente che mentalmente, sapendo le conseguenze che aveva portato questa cosa».
Insieme a lei lavoravano altre persone?
«Eravamo una decina di persone circa. Lavoravamo h24. La notte magari dovevi seguire la persona, appostarti, e la mattina lavorare sul caso in questura. Bisognava essere sempre disponibili e reperibili».
Finché non si è conclusa l’indagine.
«Sì esatto. Diciamo che a livello di magistratura non è andata proprio come si sperava si concludesse, ossia con una sentenza definitiva, in particolare per il latitante Delfo Zorzi. L’abbiamo trovato in Giappone, dove si era trasferito nel 1974 ed era diventato un imprenditore. Ottenne la cittadinanza giapponese che gli garantì poi l’immunità all’estradizione. In ogni caso siamo riusciti a individuare tutto il gruppo che faceva capo a lui, compreso il dottor Carlo Maria Maggi, che era della Giudecca. Gravitavano quasi tutti sulla zona del Mestrino e del Veneziano».
Cosa sono stati per lei gli anni di Piombo?
«Anche se non li ho vissuti in prima persona ho vissuto la coda di quello che era successo. La strage di piazza Fontana ma anche quella di Peteano, quando abbiamo individuato Carlo Cicuttini, la “primula nera” che all’epoca era conosciuto perché gli mancava una mano. Ma anche l’attentato a Marghera, dove un collega che all’epoca, nel 1995, aveva 23 anni, è rimasto gravemente ferito e costretto in una sedia a rotelle».
Cos’era successo?
«Una Volante aveva fermato un’auto a Marghera e gli occupanti, che avevano delle armi a bordo, hanno iniziato a sparare ferendo gravemente il collega Mirko Schio che è rimasto paralizzato (il soprintendente Cesaro smette di parlare, si commuove ndr) .
Nella sua vita professionale ha visto tante cose terribili.
«È così. Comunque, da lì è iniziata tutta l’indagine che ha portato a diversi mandati di arresto. Gli uomini che erano in macchina e che spararono all’impazzata colpendo Schio facevano parte di un commando della famigerata Legione Brenno, organizzazione paramilitare di destra che in quegli anni trafficava armi con la ex Jugoslavia».
Ha mai avuto paura?
«Sì, anche per fatti recenti. L’indagine sulle nuove Brigate Rosse, che abbiamo condotto da Padova e che ci ha impegnato tantissimo, è uno di questi. In casi del genere hai la consapevolezza di ciò che stanno commettendo queste persone e di quello che potrebbe succedere. È gente che per tutelare sé stessa, per scappare alla giustizia, è disposta anche a spararti. Noi stessi abbiamo documentato delle fasi di fuoco dove i membri delle Nuove Brigate Rosse provavano armi come mitragliatori e pistole. Non mi sono mai trovato fortunatamente in mezzo a una sparatoria, ma ci sono andato vicino».
Lei è anche padre di famiglia, come è riuscito a conciliare un lavoro come il suo con la vita privata?
«Mia moglie è sempre stata mia complice. Avevo orari e turni folli, ma la mia famiglia mi ha sempre supportato. Certo io evitavo di raccontare a casa proprio tutto quello che succedeva, per evitare di creare comprensibili preoccupazioni».
La soddisfazione più grande che ha avuto nel suo lavoro?
«Sicuramente i ringraziamenti e gli attestati di stima da parte dei miei colleghi e da parte di chi ha collaborato alle varie indagini. Ma la cosa che non dimenticherò mai è il ringraziamento del collega Mirko Schio».
Lei ha preso parte anche all’indagine sull’incendio del teatro la Fenice a Venezia.
«Sì, quella è stata una delle indagini che mi è più rimasta impressa. È successo nel gennaio del 1996. Il pm era il dottor Felice Casson, magistrato molto preciso e puntiglioso, che pretendeva dati certi, tipo i tempi di percorrenza tra le calli per arrivare al punto dell’innesco dell’incendio. Alla fine emerse che il rogo era stato causato dagli elettricisti che lavoravano alla manutenzione del teatro, che per non incorrere in una penale dovuta ai ritardi decisero di appiccare un piccolo incendio, ma la cosa gli sfuggì decisamente di mano».
E ancora: ha arrestato in Francia uno dei condannati dell’omicidio Calabresi.
«Sì, ho arrestato Giorgio Pietrostefani, uno dei mandanti dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972 a Milano. Pietrostefani era latitante e viveva in un paese in Francia al confine con l’Italia. Grazie a una serie di contatti l’abbiamo trovato. L’abbiamo aspettato fuori casa sua e quando è uscito, l’abbiamo avvicinato e arrestato».
Che reazioni hanno queste persone quando poi si vedono stringere le manette ai polsi?
«Sono sorprese ma alla fine provano anche una sorta di liberazione. Un latitante, nonostante abbia tutto l’interesse a rimanere tale, da un lato non vede l’ora che la cosa finisca, in un modo o nell’altro».
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