L’avvocata Shady Alizadeh: «I diritti delle donne sono universali. In Iran come in Italia»

Shady Alizadeh, avvocata e attivista del movimento “Donna, vita, libertà”, a Trieste a un incontro sul tema. «Il femminismo non è una parolaccia, è un moto culturale trasversale. Manca solidarietà»

Giorgia Pacino
Una protesta per la morte di Mahsa Amini
Una protesta per la morte di Mahsa Amini

I diritti delle donne vanno riconosciuti come diritti umani universali, perché «non ci può essere libertà per nessuno, se non c’è libertà per la donna». Lo scandisce più volte Shady Alizadeh, avvocata e attivista del movimento “Donna, vita, libertà”. Madre italiana e padre fuggito dai pasdaran, da anni racconta la lotta delle donne iraniane e combatte perché la loro storia non sia dimenticata.

A Trieste partecipa a un incontro organizzato, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che ricorre il 25 novembre, da Donne democratiche e Pd al Circolo della stampa di Trieste, alle 18.

Shady Alizadeh, avvocata e attivista del movimento “Donna, vita, libertà”
Shady Alizadeh, avvocata e attivista del movimento “Donna, vita, libertà”

Sono passati più di due anni dalla morte di Mahsa Amini, che ha dato inizio al movimento “Donna, vita, libertà”. Qual è la situazione oggi?

«Vedo un mondo che odia le donne. Vedo una politica internazionale che continua ad attuare violenza nei confronti delle donne. Il movimento “Donna, vita, libertà” è vivo, si è trasformato e continua a resistere in Iran nonostante le violenze, esecuzioni e torture messe in atto dal regime di Khamenei e nonostante la guerra, che non porta pace e non porta il rispetto dei diritti delle donne. Il regime vuole far passare l’idea che il movimento sia morto e che le donne che manifestano con atti di disobbedienza civile siano pazze».

È quello che si è detto anche di Ahou Daryaei, la studentessa di Teheran che si è spogliata per protesta dopo essere stata fermata dalla polizia morale...

«Tutto il movimento “Donna, vita, libertà” rischia di essere narrato come un movimento non politico, ma di malessere femminile. Non si è capito che quello che è nato in Iran è un movimento femminista: gli attivisti, le famiglie sono femministe e lì non hanno paura di definirsi tali».

Da noi invece?

«Da noi è una parolaccia, come se il femminismo fosse il fascismo. Il femminismo non ha mai ucciso o perseguitato nessuno, sono le donne femministe a essere perseguitate e uccise. Sono le donne che dal carcere di Evin, come la premio Nobel Narges Mohammadi, mantengono attiva la resistenza. Sono donne di diversa estrazione culturale, religiosa e politica, alcune professano anche l’Islam con una visione laica e democratica. Ciò che le unisce è l’attivismo contro le esecuzioni del regime e contro la cultura patriarcale che schiaccia noi donne per prime, ma anche i minori, le minoranze e chiunque disobbedisca».

Ha criticato i media europei per aver riportato la versione delle autorità iraniane che definivano Ahou Daryaei “mentalmente instabile”. C’è anche un problema di racconto?

«C’è un problema evidente, non solo delle donne iraniane, ma della donna vittima di violenza. “Morire per troppo amore”, “L’ha troppo amata” sono titoli di giornali italiani, che hanno raccontato donne italiane. C’è ancora un problema di mancanza di solidarietà».

In che senso?

«Non ci si mette mai nei panni di chi ha subito violenza e subisce discriminazioni in maniera continua. Se in Iran il femminismo è un moto culturale trasversale che ha visto la solidarietà di padri, fratelli, mariti, in altri contesti è messa ancora in discussione l’esistenza stessa dei diritti delle donne».

Anche in Italia?

«Abbiamo la fortuna di vivere in una democrazia. Abbiamo una Costituzione che sancisce il rispetto della parità tra uomo e donna. Abbiamo cultura, indipendenza economica, la forza di dire di no, ma c’è ancora una consuetudine che fa fatica a immaginare un ruolo diverso della donna. Donne come Giulia Cecchettin sono state uccise perché hanno detto di no. C’è un problema che non possiamo fare finta di non vedere».

In Iran ora c’è un nuovo presidente, Massud Pezeshkian. È stato presentato come un riformatore...

«Non è mai stato un riformatore. Ha una mentalità più aperta, ma nel senso che ha la volontà di dialogare per vendere il petrolio iraniano all’estero. È stato scelto anche lui dalla guida suprema, viene dall’elite religiosa che ha perseguitato i dissidenti politici. Durante la sua campagna elettorale due attiviste sono state condannate a morte e Pezeshkian non ha detto una parola. In Occidente è stato presentato come un riformatore, ma in Iran il 60% dei cittadini non è andato a votarlo».

Perché da noi è passata questa narrazione?

«I movimenti femministi fanno paura oggi nel mondo. Ne ha paura Trump, ne ha paura anche il governo italiano, come si capisce dall’ultimo video di Giorgia Meloni. Parlare di femminismo in chiave di conquista di maggiori diritti preoccupa le destre, ma c’è una nuova generazione di ragazze e ragazzi che si sta unendo anche in Italia per il rispetto dei diritti delle donne».

La discriminazione di genere è solo una delle tante. Perché andrebbero combattute tutte insieme?

«La discriminazione è intersezionale: se nasci a Barletta non hai le stesse possibilità di chi nasce a Trieste o a Milano. La battaglia che fanno oggi i giovani è una battaglia universale perché mette al centro l’essere umano come persona che deve godere degli stessi diritti e delle stesse possibilità. Il femminismo non è merito, non nasciamo tutti con le stesse possibilità. Credo che questa nuova revisione del movimento sia necessaria e giusta, ma dev’essere un percorso intergenerazionale: abbiamo avuto tanto dalle battaglie delle donne del passato e dobbiamo lottare insieme per il riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani universali».

Cosa vuol dire in concreto?

«Vuol dire che non ci può essere libertà, ricchezza ed emancipazione per nessuno, se non c’è libertà, ricchezza ed emancipazione per la donna. Per molto tempo i diritti delle donne non hanno avuto una valenza universalistica, ma sono stati declinati in politica internazionale come diritti culturali del territorio: si diceva “lì si usa così, è la loro cultura”. Ma il punto è che i diritti delle donne sono diritti minoritari. Per questo è importante la battaglia di Narges Mohammadi sul riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità: occorre dare un segnale chiaro che esiste chi esercita una discriminazione sistematica». —

Riproduzione riservata © il Nord Est