I pachistani al Giardino di piazza Libertà: il viaggio a Trieste di Adnan Sarwar, reporter britannico

L’incontro con un migrante proveniente dallo stesso villaggio dei suoi genitori. Riflessioni sull’umanità che si sposta per motivi economici, l’integrazione e le religioni.

Adnan Sarwar (traduzione e Infografiche di Valeria Pace)

Non rovinare le tue chance

Questo è l’avvertimento di uno dei giovani, un monito consegnato mentre io li rassicuro che non userò i loro veri nomi.

Tre uomini pachistani sono seduti nel Giardino di piazza Libertà, un piccolo parco a forma di quadrilatero davanti alla stazione centrale di Trieste a inizio settembre. Alcuni di loro sono arrivati con il treno. Parliamo in punjabi.

Loro sono pachistani e basta, io sono nato da genitori pachistani e cresciuto nel Regno Unito, ma quando indosso shalwar e kameez (il completo con camicia lunga sotto il ginocchio e pantaloni, abito tipico del Sud Est asiatico ndr), divido un chapati (una sorta di piadina ndr) con le mani per mangiare un curry di lenticchie mi sento proprio come loro. “Perché siete qui?”, domando loro. “Il Pakistan è una merda - rispondono - non c’è niente per noi”. “Shehbaz Sharif può andarsene a fottere sua sorella, è un delinquente, la sua famiglia ha rovinato il Paese”, proseguono. Non ho avuto alcun bisogno di controllare se l’attuale primo ministro del Pakistan avesse una sorella, visto che l’espressione è un insulto comune in punjabi, la lingua che parliamo entrambi.

Non sono a Trieste per incontrare loro. Ma mentre passeggiavo ho visto alcuni nepalesi, alcuni afghani e poi ho sentito parlare i pachistani, e così mi sono accovacciato per chiacchierare.

Uno era lì da due giorni, un altro da cinque mesi. Tutti dormono all’addiaccio. Il parco è disseminato di coperte termiche. C’è una fontanella dove si bagnano le labbra per rinfrescarsi mentre ragazze italiane passeggiano con i gelati.

Sissi

La statua di Sissi davanti alla stazione ferroviaria di Trieste. Foto di Andrea Lasorte

Lì vicino c’è la statua di Elisabetta di Baviera, detta Sissi, uccisa nel 1898 dall’anarchico italiano Luigi Lucheni, che rispondendo a chi gli chiedeva perché le avesse conficcato una lima nel cuore dichiarò:

 

Perché sono anarchico. Perché sono povero. Perché amo gli operai e voglio la morte dei ricchi

Sissi non era a suo agio nella vita pubblica come imperatrice e dopo la permanenza a Trieste avrebbe poi cercato avventure sul mare.

In Grecia a 51 anni si era tatuata un’ancora sulla spalla e d’estate soggiornava nel castello di Miramare dove oggi i triestini vanno a riposarsi in pausa pranzo mentre le onde si infrangono sugli scogli.

La sua poesia, d’altronde, aveva bisogno di un posto e l’ha trovato là.

Sono un gabbiano apolide

Non c’è spiaggia che sia casa mia

Non c’è luogo o posto che mi vincoli

Volo di onda in onda

Uno stormo di gabbiani con il castello di Miramare sullo sfondo. Foto di Massimo Silvano

Ahmed

Non voglio interrompere i giovani che ormai si sono sciolti. Dopo l’allusione all’incesto sono pronti a raccontarmi perché sono seduti nel piccolo parco davanti alla stazione di Trieste, in Italia.

Uno era da poco andato via da Londra. Chiamiamolo Ahmed.

Il suo visto valido per il lavoro stava per scadere. Sarebbe dovuto tornare in Pakistan. Invece è salito di nascosto sul retro di un camion diretto in Francia, pronto a salire su un traghetto. Forse – chissà – nella traversata ha incrociato i migranti che stavano facendo il viaggio opposto sui gommoni.

Gommoni con migranti a bordo vicino alla costa inglese. Foto di Adnan Sarwar

Quando il camion è sceso dal traghetto e si è fermato, lui ha usato un coltello per tagliarsi una via d’uscita dal telone. L’autista lo ha visto ma non lo ha fermato. Lui racconta di essere scappato e di essere arrivato in Italia a piedi.

I reportage

Conosco bene queste storie. Mi sono avventurato sui sentieri alpini assieme a un uomo del Sudan che voleva arrivare in Francia, in fuga dalle motoslitte della polizia italiana.

Uno scatto di Sarwar durante la realizzazione del reportage

Mi sono infiltrato in una banda di trafficanti di esseri umani iraniani nella giungla di Calais. Per poco non sono diventato testimone di un omicidio che stava per consumarsi davanti a me, mentre un trafficante, imperterrito, mi comunicava il prezzo di un posto nel barcone per attraversare la Manica.

Gommoni che tentano di raggiungere la costa britannica

Ho incontrato il fratello di uno di quelli che sono caduti dall’aereo a Kabul quando gli Stati Uniti hanno lasciato l’Afghanistan. Mi ha fatto vedere un video in cui si vedeva il suo caro morto sulla pista dell’aeroporto, il suo corpo si era schiantato a terra, era lacerato e sanguinante.

Ho incontrato una giovane donna a Kabul che con un po’ di soldi e di fortuna è riuscita ad arrivare a Parigi.

“Il Pakistan è una merda”

Avevo sentito che la polizia nei Balcani costringe i migranti a spogliarsi e a brucia i loro vestiti, questi uomini me lo confermano.

Dal Pakistan all’Iran, dalla Turchia alla Grecia e poi il rogo dei vestiti, poi l’Italia, poi la Francia e quelle barche che il Regno Unito sta cercando di fermare.

 

Perché? “Il Pakistan è una merda”, mi ricordano. Ahmed mi racconta che vivendo in strada e trovando qualche lavoretto di tanto in tanto riusciva a sfamare la sua famiglia in Pakistan.

Gli italiani

Mentre parliamo, un giovane italiano lascia cadere una busta della spesa davanti a noi: “Cioccolata”, dice indicandoci a uno ad uno con il dito prima di andarsene. All’interno ci sono tre coniglietti Lindt dorati e due grandi tavolette di cioccolato.

“Sono brave persone”, commenta Ahmed, che scopro essere originario dello stesso villaggio punjabi dei miei genitori. Se qualcuno avesse potuto metterci in una mano il Regno Unito e nell’altra il Pakistan e ci avesse chiesto di scegliere, entrambi avremmo preferito il Regno Unito. Mio padre aveva già fatto quella scelta per me, io non dovevo esprimermi.

“Gli italiani sono buoni - continua - non mi dispiace nemmeno che vadano in giro nudi”, un’espressione con cui allude al vestirsi con magliette, pantaloncini e gonne che lasciano scoperta la pelle. “Sarebbero perfetti se accettassero l’Islam”, conclude.

Un altro pachistano interviene, chiamiamolo Bilal. “Basta che li rispetti e loro ti rispetteranno - afferma-. Perché devono cambiare? Lasciali vivere come vogliono”. “Dovremmo imparare la loro lingua - aggiunge -. Ti hanno appena dato da mangiare”.

Un altro ragazzo non è d’accordo, dice che gli italiani dovrebbero tutti convertirsi all’Islam e che tutto ciò che è successo loro è dovuto ad Allah. Dal rogo dei vestiti ai coniglietti Lindt.

Ma Bilal sostiene che sono qui per un motivo. Non vedono che stanno meglio? Gli altri ragazzi su questo sono d’accordo e tornano a dare dei delinquenti ai componenti della famiglia Sharif.

Bilal dice che la polizia locale sta cercando un gruppo di immigrati pachistani che hanno accoltellato alcuni rifugiati afghani. “Da cosa è scaturita la rissa?”, chiedo. Lui risponde: “Sono degli scemi del villaggio, si sono accapigliati per niente”.

Bilal

Bilal è un pensatore, parla a bassa voce, mi sorride quando mi sente rivolgersi a lui nella sua lingua.

Era riuscito a passare il confine aggrappandosi a un treno che gli era stato indicato da un contrabbandiere. Aveva speso molti soldi per arrivare fino a lì e questa era la sua unica chance di proseguire. Aveva paura di cadere e di rimanere schiacciato sui binari dalle ruote.

Un'immagine della "Bestia", come viene chiamato il treno cui si aggrappano i migranti messicani diretti negli Stati Uniti lungo una rotta che in sei anni ha inghiottito settantamila persone. "La bestia" è il titolo del libro del giornalista Oscar Martinez.
Un'immagine della "Bestia", come viene chiamato il treno cui si aggrappano i migranti messicani diretti negli Stati Uniti.

Aveva visto uomini morire nel viaggio e continua a portarsi i loro volti negli occhi. Gli dispiace per le loro famiglie che non sapranno mai se sono morti su un sentiero di montagna o in mare o se invece sono da qualche parte al sole a mangiare gelati e a godersi la vita. Avrebbe voluto conoscerli, sapere chi erano. “Erano i figli di qualcuno”, dice.

Un giornalista indica le rotaie ancora insanguinate dopo che un treno in Macedonia nel 2015 schiaccia e uccide 14 migranti che camminavano lungo la ferrovia

“Non capisco, ho bisogno di aiuto e quando sento che il mondo non vuole aiutarmi, non voglio viverci, gli italiani invece sono stati buoni con me”, ripete ai ragazzi.

Lui è uno dei fortunati, centinaia di pachistani sono annegati al largo della Grecia nel giugno 2023. Pachistani sono pure caduti da aerei vicino a Heathrow a Londra, come Muhammad Ayaz nel 2001, il cui padre disse:

Mio figlio era forte come quattro uomini, ma è morto in cerca di pane.

Il Delfino verde

Penso di nuovo all’uomo che voleva convertire gli italiani. Io non voglio l’Islam per l’Italia, voglio questa Italia.

Turisti a Muggia e dietro il Delfino Verde. Foto di Andrea Lasorte

Su un traghetto di ritorno da Muggia dopo una visita a un’amica, un uomo di mezza età mi guarda e io lo fisso per alcuni secondi che sembrano durare molto più a lungo. 

E’ al timone di un piccolo motoscafo bianco che solca l’Adriatico, ha un corpo abbronzato e slanciato, come unico indumento indossa un costume rosso brillante, ha gli occhiali da sole e i capelli pettinati all’indietro. Seduta accanto a lui c’è una bella donna con i capelli neri che indica il marina che hanno appena lasciato, e dirige lo sguardo in avanti, forse verso un punto noto a entrambi.

Vorrei essere lui. Vorrei essere su quella barca. Voglio che gli italiani vadano in giro “nudi”. E voglio essere nudo anch’io.

Trieste

Voglio godermi il sole in Piazza Unità, e non mi dispiace nemmeno la pioggia. Voglio che l’enorme bandiera italiana e quella enorme e rossa di Trieste sventolino sui pennoni che si ergono come enormi bastioni a sorvegliare la piazza.

L'alzabandiera in piazza Unità d'Italia. Foto di Andrea Lasorte

Voglio mangiare alici al Caffè Degli Specchi e che i camerieri, orgogliosi, continuino a versare vino, voglio rimanere seduto fino a notte fonda pieno e felice mentre Giannola Nonino mi racconta che il suo amaro è il migliore, gustarlo e decidere che forse in effetti è così.

Voglio prendere di nuovo il traghetto per Muggia e mangiare di nuovo il gelato al pistacchio da Jimmy con la mia amica Annali e, sul traghetto di ritorno, rivedere l’uomo e la donna sulla barca.

Come fa l’Italia a non essere abbastanza? E di cos’è fatta questa Italia che desidero? Solo di mare, terraferma e qualche barca? No. Quello che desidero è la libertà, una chance. Non è perfetta, ma so che qui si può vincere.

Questo è quello che ho in Occidente. Non ho sempre vinto, ma voglio avere la possibilità di giocare.

La scelta di mio padre

Sento profonda gratitudine per quel che accadde nel 1961. Gli inglesi capirono che l’industria del cotone stava fallendo e decisero di tenere in funzione i cotonifici tutto il giorno e tutta la notte.

Chiesero alla gente dell’India e del Pakistan di venire a fare i turni di notte e questa ricerca di personale arrivò fino al villaggio dei miei genitori.

Mio padre, un uomo non sposato, rispose. Proprio come Ahmed, la sua famiglia si aspettava che lavorasse, che questo fosse nei campi del Pakistan o nelle fabbriche dell’Inghilterra. Sarebbe mancato ai suoi genitori, ma lui aveva scelto di trasferirsi per ottenere di più.

Alla fine, mio padre e i suoi amici non riuscirono a salvare l’industria del cotone, ma fecero la loro parte.

I genitori di Adnan Sarwar

Papà diceva che gli inglesi distribuivano documenti di cittadinanza all’aeroporto e che Enoch Powell (politico dell’epoca conservatore, contrario all’immigrazione ndr) non era un tipo simpatico.

A volte siamo stati picchiati, a volte ci hanno sputato, ci hanno insultati, ma ce l’abbiamo fatta.

La mia vita

Ho prestato servizio nell’esercito britannico durante la guerra in Iraq, sono stato redattore dell’Economist e ora studio Filosofia e Teologia all’Università di Oxford. Ho una vita che non avrei potuto avere in Pakistan, provenendo da una famiglia che aveva solo un fazzoletto di terra da coltivare.

Durante i viaggi in estate in Pakistan, da bambino, ho visto la mia famiglia costretta a dare bustarelle al personale dell’aeroporto, alla polizia, a chiunque sorvegliasse un cancello. Ho visto i vicini spostare i confini fatti di mattoni, rubando lentamente la nostra terra. Ero impotente davanti ai black out, che avvenivano due volte al giorno. Ho visto uomini che lavoravano quei campi con la pelle che sembrava cuoio e persone che pregavano per l’acqua.

Ma il 1961 se n’è andato, non c’è per Ahmed o Bilal.

Migrazioni e integrazione

Forse c’è un modo per far vivere Ahmed in Europa e forse questo lo cambierà, forse dopo tutto non gli dispiacerà essere nudo.

I pachistani che arrivarono con mio padre non si limitarono a subire insulti e atteggiamenti razzisti.

Gli operai della cartiera volevano conoscerli, li portavano nei pub, i pachistani si ubriacavano, alcuni sono finiti per sposare le donne del posto. Hanno messo da parte soldi e comprato negozi, poi hanno mandato i loro figli all’università, e quei figli hanno poi acquistato case. Alcuni di loro sono diventati milionari, altri sono entrati a far parte del governo.

Non posso odiare il Paese dei miei genitori, è semplicemente un luogo dove vivono persone, alcune di queste corrotte. Ma so che il posto in cui mi trovo è migliore.

Ungaretti

Non sono a Trieste per incontrare i ragazzi che ho intervistato. Sono qui per tenere una conferenza sulle migrazioni a un festival di giornalismo. Sono atterrato a Venezia la sera prima. Edoardo mi è venuto a prendere in macchina. Mi ha chiesto se volevo sedermi dietro, invece mi sono accomodato davanti.

Oltre a fare l’autista, Edoardo studia Letteratura italiana all’Università. Nelle due ore di viaggio verso Trieste mi ha dato un’infarinatura. Gli ho chiesto di parlarmi del rapporto tra Dante ed Ezra Pound perché di questo sapevo qualcosina. Lui mi ha risposto allargando il discorso a Giacomo Leopardi, Ugo Foscolo, Giovanni Verga, Gabriele D’Annunzio, Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti…

Ma quando, mentre guidava sotto la pioggia battente e il mio telefono si illuminava ripetutamente con le notifiche di allerta meteo dell’Aeronautica Militare Italiana, ha recitato “Soldati” di Ungaretti, l’ho fermato. Gli ho chiesto come si scrive il cognome di Giuseppe. Questa breve e potente poesia dice tutto quello che c’è da dire.

L'immagine di Giuseppe Ungaretti
Un giovane Giuseppe Ungaretti soldato nel 1918

Forse sono rimasto così colpito dai versi di Ungaretti perché ho scavato trincee sotto le bombe delle truppe di Saddam, mentre ci si avvicinava all’invasione dell’Iraq dal Kuwait nel 2003 o perché ho visto al telegiornale gli ucraini che combatterci dentro.

Un soldato ucraino in una trincea a nord della capitale Kiev nel marzo 2022. AP Photo/Vadim Ghirda

Ma a ben pensarci non mi ha colpito perché Ungaretti l’ha scritta da una trincea in Francia, e nemmeno perché mentre Edoardo la recitava in macchina da ogni sua parola traspariva tutto il suo amore per la poesia. No. Era successo perché incapsula la verità.

La poesia inizia con il titolo: “Soldati”. Lui lo era. Non lo siamo forse tutti quando combattiamo nella vita?

Con il primo verso “Si sta come”, Ungaretti ci ha già catturati, è in trincea con i suoi amici e commilitoni. La forma impersonale coinvolge lui e i suoi amici, e alla fine della poesia coinvolge tutti noi.

Il verso successivo: “d’autunno”. Si tratta della stagione che si avvicina alla fine dell’anno, alla fine di noi, forse della nostra vita stessa. 

Poi arriva “sugli alberi”. Non siamo alberi forti, non rimaniamo eretti per sempre. Non siamo nemmeno rami. Viviamo sulle estremità, rischiamo tutto crescendo. Rischiamo di essere colpiti dalle intemperie mentre andiamo alla ricerca di qualcosa.

E Ungaretti conferma che siamo “le foglie” che cadranno sulla terra.

Conclude il tutto con: “Foresta di Courton, luglio 1918”.

Ha combattuto nella guerra che ho studiato nelle lezioni di Storia a scuola. Ghiacciato, bagnato, vivo. Dentro a un fosso per non rischiare di essere trafitto da un proiettile e morire da ignoto. Ma consapevole del fatto che poteva cadere come una foglia e non alzarsi mai più, dissolversi e diventare terreno lui stesso.

Tutti cadiamo. E ora lasciamo che alcuni cadano. “L’albero può provvedere solo a un numero limitato di foglie”, è l’argomentazione che viene avanzata da molti.

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Ahmed II

È colpa di Ahmed se ha lasciato il Pakistan? Si potrebbe dire che ha fatto i suoi interessi, ma non è così per tutti? È colpa dei suoi genitori? Anche loro pensano ai suoi interessi e forse pure ai propri, dato che Ahmed così sarà in grado di sfamarli.

È colpa dei governi pachistani? Della corruzione? O del fatto che hanno avuto una ventina di bail-out da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi) in meno di ottant’anni? O del fatto che la famiglia Sharif è accusata di essersi comprata delle abitazioni con denaro pubblico? Ma se continuano a ricevere denaro è colpa loro? È colpa del Fondo Monetario Internazionale che permette loro di continuare a ricevere denaro?

È colpa nostra?

È un Paese povero, con più di 240 milioni di persone. L’energia elettrica non è garantita sempre, c’è a intermittenza, ma possiede armi nucleari. Confina con l’India, con la quale ha rapporti difficili e con cui ha combattuto, con l’Afghanistan – e ha bisticciato con i talebani –, e con l’Iran, con cui di recente al confine c’è stato uno scambio di colpi di artiglieria.

Proprio vicino a quel confine si trova la miniera di Reko Diq, che si ritiene abbia i più grandi depositi d’oro e rame del mondo. Nonostante questo, nessuno è ancora riuscito a fare del Pakistan un Paese ricco per la sua gente che, come Ahmed, continua a credere che Allah abbia dato loro in sorte la povertà.

Le religioni

Li saluto e vado a una cena che mi viene offerta in centro, in piazza Unità, punto da cui si gode di una vista panoramica sul mare Adriatico. Mangiavano anche loro gratis, perché un’organizzazione cattolica nata nel 1968, la Comunità di Sant’Egidio, dava loro da mangiare. Anche un’anziana coppia di italiani frequentava regolarmente il parco e dava da mangiare ai migranti ogni giorno.

Il Papa era venuto in visita a luglio a Trieste e aveva incontrato i migranti.

Papa Francesco al termine della Messa in piazza Unità a luglio 2024

Ahmed parla di conversione perché è l’unica cosa che conosceva, ma qui i cristiani lo stanno sfamando.

L’Italia non è abbastanza? Vengono da un Paese che non può sfamarli.

Questa storia è vecchia almeno quanto la Bibbia e continua anche al giorno d’oggi. Quando gli Ebrei lasciarono Canaan durante una carestia, andarono in Egitto in cerca di rifugio e furono invece imprigionati. I migranti che compiono la traversata da Calais a Dover vengono messi in hotel fino a quando i loro casi non vengono esaminati. Recentemente alcuni sono stati ospitati sulla chiatta Bibby Stockholm dalla capienza di 500 uomini. La struttura è stata chiusa perché è stata chiamata “una prigione galleggiante”.

La prigione non è semplicemente costituita dai muri. Si costruisce anche con il linguaggio politico dei governi, con le azioni dell’estrema destra che ha cercato di bruciare i migranti negli alberghi, con la demonizzazione di una potenziale forza lavoro lasciata rimanere nel Paese ma senza lavoro.

Rimaniamo in contatto

Vorrei restare con loro più a lungo. La migrazione non finirà, che sia a causa della guerra, dell’economia o del cambiamento climatico. Se vogliamo capire questa recente ondata al di là della forte politicizzazione del fenomeno dobbiamo parlare con chi si muove. Ma devo andare via.

“Possiamo rimanere in contatto, Ahmed?”. Questo è il momento in cui il suo amico lo avverte di non “rovinare le sue chance”. La sua chance di una vita in Europa.

“Ok va bene”, ha detto. Gli porgo un biglietto da visita. Su un lato c’è il mio numero di telefono, sul retro una foto che ho scattato a un soldato talebano.

Un soldato talebano. Foto di Adnan Sarwar

Ridendo me la restituisce e mi chiede cosa sarebbe successo se la polizia lo avesse perquisito e avesse trovato quella foto. Io allora gli do un altro biglietto da visita, con la foto di una ragazzina, Mama, che avevo conosciuto in Afghanistan.

Mama. Foto di Adnan Sarwar

Aveva lasciato la sua famiglia a Mazar-e-Sharif e chiedeva l’elemosina per le strade di Kabul. Una migrazione interna. Aveva circa undici anni e sfamava lei la sua famiglia, rischiando la sua vita: viveva vicino a spacciatori e gang che l’avrebbero venduta per farla diventare una prostituta se l’avessero presa. Se le aveste mostrato la strada per l’Europa, avrebbe iniziato a percorrerla anche lei.

“Questa è la cima dell’albero”, ricordo ad Ahmed. Mi risponde che qualsiasi posto in cui potesse trovare il suo “Thana, panee” è un buon posto. Thana vuol dire “cereale”, cioè pane o chapati, e panee vuol dire “acqua”.

Le religioni

Vado a cercare i cristiani e li trovo nella notte assieme ai loro zaini pieni di cibo. Dicono che fanno la cosa giusta da fare. Forse sentono il bisogno di aiutare, forse sanno che la nostra storia ha dimostrato che siamo stati tutti migranti, o forse sapevano che il fenomeno migratorio non finirà a breve. Li vedo, sono un gruppo. Donano il loro cibo e il loro tempo.

Lorena Fornasir, di Linea d'Ombra, assiste alcuni migranti in piazza Libertà a Trieste

Perché i cristiani li aiutano? In Matteo (22:37-40), a Gesù viene chiesto quale sia il comandamento più importante della legge, Gesù gli disse: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il primo e grande comandamento. E il secondo è simile: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono la legge e i profeti.

Anni prima di questa interazione, il rabbino Hillel (noto anche come Hillel il Vecchio) fu interrogato in modo analogo da un uomo. L’uomo chiedeva che gli venisse insegnata l’intera Torah stando su un piede solo. Hillel gli disse: “Ciò che è odioso per te, non farlo al tuo prossimo. Questa è l’intera Torah, il resto è solo un commento. Ora vai e studia”.

È sulle fondamenta ebraiche che è stato costruito il cristianesimo. L’amore per il prossimo divenne centrale per i cristiani, come si vede anche in Matteo 7:12: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Questa è comunemente conosciuta come la Regola d’oro di Gesù e i cristiani non l’hanno dimenticata.

Lo yacht A

Proseguendo nella notte, camminando verso sud-est lungo il mare, ho visto le tre luci rosse dello yacht A, che mi hanno ricordato le cinque luci rosse che i migranti a Calais puntano verso Dover.

Questa barca, uno degli yacht più grandi del mondo, è stata sequestrata dalle autorità italiane dopo le sanzioni contro la Russia. La proprietà è di Andrey Melnichenko, un industriale russo miliardario.

Uno scatto dello Yacht A. Foto di Andrea Lasorte

La gente a Trieste dice che il personale viene a riva in tender per mangiare e bere, e che a bordo ci sono quadri di Manet. La gente a Trieste non lo ama, si dice che costa milioni di euro in manutenzione allo Stato italiano.

Abdus Salam

Il giorno dopo si parla di migrazione, si parla di Afghanistan e di Francia. Ci sono studenti che vogliono diventare giornalisti che mi chiedono come si arriva sul campo di battaglia.

Adnan Sarwar (al centro) al Link Media Festival. Foto di Francesco Bruni

Dopo, camminando al sole, una coppia di mezza età mi ferma. Lei un medico, lui con un PhD in fisica. Lui è convinto che io sappia chi è Abdus Salam. Io non lo conosco. “Ma allora devi approfondire questa figura”, insiste.

Abdus era un fisico teorico pachistano, vinse il premio Nobel e fondò a Trieste un istituto che funziona ancora oggi. Il lavoro di Salam aveva portato alla scoperta del bosone di Higgs e nel suo discorso a Stoccolma aveva citato il Corano, dalla Surah Al-Mulk: “Cercando le imperfezioni non se ne trovano quando si considera la creazione di Dio”.

Il fisico Abdus Salam alla cerimonia per la consegna del Nobel nel 1979
Il fisico Abdus Salam alla cerimonia per la consegna del Nobel nel 1979

Ha concluso il discorso riconoscendo che è stato Dio a dargli questi doni della mente e che ciò che desiderava di più era condividerli, “a beneficio di tutta l’umanità”. E ha aggiunto che la sua vittoria era anche “per coloro che nel Terzo Mondo sentono di aver perso la corsa alla conoscenza scientifica, per mancanza di opportunità e di risorse”.

Il fisico mi mostra la sua tessera della biblioteca, sopra è stampato il nome di Abdus. Di nuovo ho provato un senso profondo di essere pachistano, di appartenere a un gruppo. Non sapevo nulla di Fisica ma entrambi condividevamo lo stesso Paese d’origine.

Cercando notizie su di lui, ho scoperto che era un musulmano ahmadi, rifiutato dai sunniti. Per ordine del governo pachistano, la sua lapide è stata deturpata per rimuovere la parola “musulmano” e ora si legge, sotto il suo nome, che Abdus “nel 1979 è diventato il primo premio Nobel OMISSIS per il suo lavoro nella Fisica”.

Lasciò il Pakistan dopo i disordini del 1953 a Lahore contro gli ahmadi, ma continuò a lavorare con gli scienziati pachistani invitandoli regolarmente a Trieste.

Dopo aver ringraziato la Fondazione Nobel, la prima cosa che disse fu: “Il Pakistan vi è profondamente debitore”.

Conclusione

Pochi giorni a Trieste e devo partire. Non ho risposte. Solo domande. Cosa succederà ai pachistani nel parco? Non stavano scappando da una guerra ma dalla povertà, contava?

I migranti verso il Regno Unito ora devono avere un lavoro che paghi almeno 38.700 sterline (46.156,91 euro). Questi uomini non avranno mai i requisiti. Centinaia di pachistani sono morti lo scorso anno per il caldo, a maggio 2024 la temperatura ha raggiunto i 52,2°C. Scapperanno altri anche da questo?

Chi vincerà il dibattito sui migranti, il Papa o la premier?

Papa Francesco con la premier Giorgia Meloni. Foto Vatican Media/LaPresse

Che ci sia un altro punto di vista da adottare, dall’alto? Cosa si vedrebbe? Gli uomini nel giardino di piazza Libertà, la coppia nella barca. E più in alto, una vista più ampia del mare Adriatico, ancora più in alto, oltre il Mar Nero, il mar Caspio e il mar Arabico e l’Oceano Indiano a est, il Mediterraneo a sud e il canale della Manica a ovest.

Sulla terraferma a nord si vedrebbe la gente che scappa dal confine russo con alcuni ucraini fanno di tutto per sfuggire alla coscrizione.

Si vedrebbero più di un milione di siriani in Libano e più di tre milioni in Turchia a cui sono piovute addosso le bombe e che sono dovuti scappare dal loro Paese.

Si vedrebbero le bombe che atterrano su Gaza, che impongono ai sopravvissuti di scappare.

Si vedrebbero le cicatrici lasciate in Iraq e in Afghanistan dalle guerre americane e britanniche.

Si vedrebbe un funzionario corrotto che spreme i poveri pachistani.

Si vedrebbe la guerra in Sudan tra due rivali del governo militare.

Si vedrebbero la guerra, il caldo, la fame, le bombe, la disperazione. E si vedrebbero siriani, sudanesi, ucraini, pachistani.

Ma invece si potrebbero vedere solo donne, uomini e bambini e si potrebbero chiamarli il nostro prossimo.

Una mamma con un bambino in Afghanistan. Foto di Adnan Sarwar

Atterrando di nuovo nel Regno Unito con il mio passaporto britannico, so è che per un mix di opportunità e tempo sono qui e non lì, mi sento in colpa e felice.

Avrei potuto essere uno dei pachistani nel parco lontano dalla famiglia, che ha bisogno di aiuto e cibo e li trova in una mano cristiana.

 

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