Zone rosse e sicurezza: l’ex prefetta Stradiotto dubita dell’efficacia delle misure

Daniela Stradiotto, ex prefetta della Polizia di Stato, esprime perplessità sull’efficacia delle zone rosse per la sicurezza. Servono più prevenzione e poliziotti di quartiere anziché divieti e militarizzazione

Enrico Ferro
Daniela Stradiotto, ex prefetta della Polizia di Stato
Daniela Stradiotto, ex prefetta della Polizia di Stato

«Provo grande rispetto di tutto ciò che si sta facendo ma ho seri dubbi sull’efficacia delle zone rosse e sulla loro tenuta come misura risolutiva. Abbiamo fatto tanto per abbattere i muri. A Padova stessa c’era il muro di via Anelli e non mi è mai piaciuto. Posso pensare che questi nuovi provvedimenti possano rappresentare una misura d’attacco, ma prima si deve capire qual è il livello di minaccia reale della sicurezza».

Daniela Stradiotto, padovana, prefetta in pensione della Polizia di Stato, da funzionaria ha creato da zero la figura del poliziotto di quartiere: agenti a piedi che fanno sicurezza con il concetto di prossimità, mantenendo i contatti con abitanti e commercianti dei rioni cittadini. È in pensione da meno di due anni ma segue con occhio clinico la polemica esplosa con questa linea che il Viminale ha imposto ai prefetti.

Daniela Stradiotto, cosa intende dire quando parla di «minaccia reale della sicurezza»?

«Un conto è la sicurezza reale, un altro il percepito. Dunque, di cosa stiamo parlando in questo momento? Perché se il fenomeno è quello dei giovani con il coltello in tasca, non credo che la soluzione sia alzare muri. Del resto, è da quando siamo usciti dal Covid che si parla della violenza dei giovani».

Quindi non crede a questo allarme legato alla sicurezza?

«Dubito che a Milano ci siano davvero livelli di violenza così alti e lo stesso vale per Padova o altre città del Nord Est. Se analizziamo bene i numeri scopriamo che, per esempio, gli omicidi sono calati. Altra cosa sono poi i fenomeni che magari necessitano misure ad hoc».

Può essere più chiara?

«Mi dispiace perché non vedo una riflessione importante sul piano della prevenzione. Vedo sempre la solita risposta: più uomini, più militari, più poliziotti. Ma quando viene a mancare questa forma di pressione sul territorio, cosa resta in mano? Qual è il vero grado di penetrazione nel territorio? Il mondo di oggi è diverso da quello di cinque anni fa».

La sua è una bocciatura delle zone rosse?

«Continuare a proporre moduli operativi di divieti, non correlati da una vera campagna di prevenzione, credo sia un sistema claudicante. Forse può portare risultati a breve ma di sicuro non è la soluzione».

Oggi c’è il fenomeno dei “maranza”, come lo affronterebbe se dipendesse da lei?

«L’attività di prevenzione sconta una difficoltà: non si può misurare con una metrica quantitativa. Nel 2003, governo Berlusconi, ministro Pisanu, capo della Polizia De Gennaro, mi chiesero di sviluppare il poliziotto di quartiere. Ci ho creduto molto da subito, dall’Inghilterra vennero in Italia per studiarci. Era molto più di una semplice pattuglia che passa. Uno strumento per raccogliere il sentimento della comunità».

Significa che ancora oggi lei userebbe i poliziotti di quartiere per questa emergenza dei giovani e delle risse?

«Antonio Manganelli mi diceva: mandali casa per casa. Se non sei in rete con la parrocchia, con le associazioni, con gli esercenti, come raccogli lo stato d’animo della comunità? Il territorio non si penetra con la militarizzazione. I campanelli d’allarme non si raccolgono con le zone rosse. E la prevenzione non spetta solo alle forze di polizia».

Faccia un esempio concreto: come gestirebbe i problemi riscontrati a Padova, Venezia, Trieste o Treviso?

«Io mi limito a dire che la reprimenda non basta. Cosa si fa, parallelamente, per evitare che accadano questi fatti in piazza? Non vedo campagne di prevenzione, non si parla più di prossimità. E nemmeno di poliziotti di quartiere o di carabinieri di quartiere».

Però si punta sul controllo massiccio del territorio.

«Sì ma cosa si fa per fare prevenzione? La volante che passa e fa controllo del territorio non penetra il territorio. Apprendiamo che i giovani hanno il coltello in tasca solo nel momento in cui lo tirano fuori. Ogni epoca ha i suoi fenomeni ma io non credo che i muri possano essere la soluzione. È antibiotico forse, ma poi serve un ricostituente, oltre a soluzioni strutturali di sicurezza partecipata. E non parlo solo di forze di polizia. Tutti devono essere in rete, comune compreso».

Lei per lungo tempo è stata anche a capo dell'Osservatorio Nazionale sulle manifestazioni sportive. La settimana scorsa i tifosi dell’Udinese hanno ordito questo assalto al treno degli ultras del Venezia. Cosa ne pensa?

«Mi ha molto colpito, per un motivo molto semplice: quando mai è successo qualcosa a Udine? È drammatico che ci si mettano anche i tifosi dell’Udinese. Il mondo è cambiato. I social hanno stravolto ogni schema. I friulani erano gemellati con tifo straniero e si sono accordati per un agguato ai veneziani, per vendicare l’andata».

Che fare, quindi?

«Anche in questo caso, come per le piazze, io dico: va bene portare duemila poliziotti allo stadio, ma intanto cosa si fa per tornare al pre Covid?». 

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