Il teologo Mancuso: «E’ stato un riformista, ha saputo parlare con il suo popolo, ma la spinta non si è tradotta in dottrina»
«Papa Bergoglio è stato un grande comunicatore e un profeta». Sui diritti: «Ha aperto agli omosessuali, ma sulle donne la Chiesa è rimasta indietro»

De mortuis nihil nisi bonum. Ovvero: dei morti niente si dica, se non bene. Ma in questa cornice – persino ovvia, scontata, se il defunto è il Papa – non è illecito provare ad analizzare il pontificato che s’è appena concluso. La premessa, con tanto di adagio latino, è di Vito Mancuso, teologo e filosofo, oggi docente del master in meditazione e neuroscienze dell’Università di Udine.
«È stato un grande comunicatore, un grande profeta», sottolinea in prima battuta. «Per quanto attiene invece al governo effettivo della Chiesa, beh, non è stato capace secondo me di tradurre in dottrina, in articoli, in leggi l’indubbia spinta verso le riforme».
Tra i tanti aggettivi accostati a Papa Francesco nell’ora della morte, quello forse più ricorrente è «riformista». Un titolo appropriato?
«Dodici anni fa, guardando alla televisione l’annuncio del cardinale protodiacono e ascoltando le prime parole del Pontefice, avevo grandi aspettative. Mi sarei aspettato molto di più: Francesco è stato un Papa riformista come tensione, ma nel concreto? Le riforme, all’atto pratico, non ci sono state. Pensiamo a ciò che più divide oggi la Chiesa dal mondo: la condizione della donna. Pensiamo all’Italia, dove governa Meloni, alla Commissione europea, dove troviamo von der Leyen, alla Bce, con Lagarde. Ancor oggi nella Chiesa le donne non possono salire neppure sul primo gradino, il diaconato: e cosa ha fatto papa Bergoglio per colmare questa distanza? È stato un riformista di cuore, ma poi non ha fatto seguire azioni concrete. E dodici anni, per un pontificato, non sono pochi».
È stato il primo Papa a dire apertamente che «essere omosessuali non è un crimine».
«All’inizio del pontificato disse: “Chi sono io per giudicare? ”. E aprì effettivamente una pagina nuova, perché tolse quella secolare condanna a priori. Però appena un anno fa pronunciò quell’espressione proprio becera sulla frociaggine nei seminari, un’uscita infelice rivelatrice di una posizione ambigua sul tema. Direi che molti processi sono stati iniziati, ma non conclusi a dovere. Basti vedere a cosa hanno portato i sinodi sulla famiglia, oppure pensare che la morale sessuale della Chiesa è ancora ferma all’Humanae Vitae».
Eppure ha saputo avvicinare anche chi è lontano dalle cose di Chiesa. Perché?
«Soprattutto a livello di politica interna è stato un grande comunicatore. Ha toccato il cuore di tantissime persone dal punto di vista proprio del parlare al popolo. Era imbattibile nella capacità di rivolgersi a quello che lui chiamava il popolo, basti pensare alle ultime parole pronunciate, a quel “grazie per avermi portato in piazza”, rivolto all’infermiere. Ma, come detto, è mancata la traduzione di questa grande spinta in termini dottrinali, in termini di leggi».
Ha detto: è stato un grande profeta. Perché?
«Il profeta è chi parla al posto di Dio e si pone di fronte al mondo, che quindi sferza il mondo senza curarsi dei suoi equilibri, richiamandolo al dovere, all’impegno, alla forza della missione. Basti pensare all’impegno per i poveri, alla lotta contro gli armamenti, al richiamo costante alla pace, alla difesa di Gaza fino all’ultimo: ecco, in questo Francesco è stato profeta, il primo Papa a esserlo, a partire dal nome scelto dodici anni fa. In fondo il poverello di Assisi è stato uno che ha “rotto” con la famiglia e con la chiesa ufficiale. Per questo, parlando del pontificato di Bergoglio, ho parlato di teopatia: ha usato la passione e non la logica per parlare di Dio al mondo. Ed essendo la passione totalizzante, o bianco o nero, Papa Francesco è stato a suo modo divisivo».
I migranti, la pace, l’impegno dei poveri. Sono state le cifre che hanno permesso al Santo Padre di raccogliere così tanti consensi anche dal mondo tradizionalmente laico?
«Sì. A questo aggiungiamoci l’anticlericalismo professato diffusamente. La parola “clericalismo” per il Papa rappresentava quanto di peggio potesse esserci e questo, senza dubbio, ha affascinato moltissime persone distanti dalla Chiesa. Penso a Eugenio Scalfari, che negli ultimi anni ha diffusamente citato il pensiero del Pontefice nei suoi editoriali. La capacità di toccare il cuore, l’attenzione dimostrata agli ultimi, la passione per la giustizia hanno certamente calamitato l’attenzione di tanti che erano sempre rimasti lontani dal mondo cattolico».
Quando, dodici anni fa, il cardinal Bergoglio salì al soglio di Pietro, lei accostò la figura del successore di Papa Ratzinger a quella del cardinale Carlo Maria Martini, facendo riferimento alle parole di quest’ultimo, che parlava di una Chiesa «indietro di duecento anni». Quanto di quel gap è stato recuperato? E quanto effettivamente le due figure sono accomunabili?
«Sono stati accomunati dal desiderio di unire la Chiesa, ma molto diversi nella modalità di cercare di colmare il gap tra la Chiesa e il mondo. Papa Francesco ha dato il meglio di sé con il popolo, in piazza, tra la gente. Il cardinal Martini era al contrario a disagio al cospetto delle persone».
Che Chiesa lascia Papa Francesco?
«Un po’ nel mezzo, divisa tra i progressisti, scontenti perché le riforme non si sono compiute, e i conservatori, a loro volta scontenti perché hanno paura che quelle riforme accennate vadano avanti».
E in questo contesto quali caratteristiche dovrebbe avere il successore di Bergoglio?
«C’è bisogno di un grande Pontefice, nel senso letterale ed etimologico del termine, cioè di un costruttore di ponti. Ponti anzitutto all’interno della Chiesa stessa, perché forse come mai in questo momento la Chiesa risulta divisa. Perché l’azione di Papa Francesco è stata tanto forte a livello mediatico sul mondo, quanto poco orientata al mantenimento dell’armonia tra i suoi generali, per usare un termine militare. Non ha lesinato critiche alla Curia, nel corso di questi dodici anni: ma è come se il capo del governo criticasse continuamente i propri ministri, senza prendere contromisure. Secondo me c’è quindi bisogno di un cardinale dolce e di profonda spiritualità, capace di unire e di parlare a tutti i settori della Chiesa».
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