La speranza che Papa Francesco lascia in eredità alla Chiesa
La speranza è il sentimento con il quale, dopo il dolore e le preghiere, i fedeli guarderanno al futuro della Chiesa, alla scelta del successore e a come saprà interpretare il suo ruolo


Nel momento in cui riavvolgiamo il nastro di un pontificato lungo 12 anni, riaffiorano alla mente tutti quei gesti che hanno fatto di Francesco il Papa delle prime volte.
L’essere il primo vescovo di Roma che arrivava dal Sud America e il primo gesuita sul soglio di Pietro sono stati soltanto la premessa di un cammino scandito da scelte e situazioni senza precedenti. La memoria corre veloce, anche se l’elenco è lunghissimo: l’incontro con il Papa emerito Joseph Ratzinger dieci giorni dopo l’elezione, la Lampedusa dei migranti come primo viaggio, la decisione di vivere a Santa Marta anziché nel Palazzo Apostolico, la quotidianità frugale (l’utilitaria, l’acquisto degli occhiali in negozio), i momenti storici, come la preghiera in solitudine in una piazza San Pietro deserta al tempo del Covid, l’incontro a Cuba con il patriarca ortodosso Kirill nel 2016 e quello del 2019 ad Abu Dhabi con l’imam di Al-Azhar.
Tutti momenti in cui era la forma a colpire per prima l’immaginario, ma soltanto come chiave per far spazio alla sostanza, ovvero al messaggio che potremmo definire politico del Papa.
Oltre ai gesti, ci sono state le parole, molte delle quali diventate altrettanto simboliche. Alcune direttamente legate al suo magistero, altre che sono patrimonio di tutti, credenti e no: la povertà, le periferie, il creato e l’ecologia, la misericordia, i migranti, il dialogo, la pace. Soprattutto quest’ultima diventata negli ultimi anni un grido quasi disperato, spesso lanciato in solitudine.
I gesti e le parole, insieme, hanno fatto di Francesco un Papa che non è irrispettoso definire simpatico, pensando al significato di questo aggettivo, che indica un sentimento di partecipazione alle emozioni. Perché questo è successo, le persone lo hanno sentito vicino e per questo lo hanno molto amato.
Ciò ovviamente non vuol dire sminuire gli sforzi che Francesco ha fatto per cercare di dare forza al messaggio apostolico: ma dagli interventi sulla gerarchia cattolica al lavoro sulla dottrina, ci vorrà più tempo per capire quale sia stata la reale spinta riformatrice. Senza dimenticare che le attese per un’apertura su diversi temi – pensiamo al ruolo delle donne nella Chiesa o al dibattito sul celibato – alimentate proprio da atteggiamenti così semplici e diretti, ecco quelle attese hanno dovuto misurarsi con la resistenza delle componenti più tradizionaliste e con gli scandali che non hanno risparmiato neppure questo pontificato, a partire dalla gestione della piaga degli abusi sessuali.
Oggi è quindi la dimensione umana ad avere la precedenza e ancora una volta ci sono un gesto e una parola ad accompagnare gli ultimi passi terreni di Francesco. Il gesto è stato quello di riuscire a impartire la benedizione pasquale: la voce era sofferente, poco più di un sospiro, e la mano tremante, ma l’importante per lui era essere lì, con i fedeli, con la sua gente, fino all’ultimo. La parola è speranza, alla quale Francesco ha scelto di dedicare l’anno giubilare che stiamo vivendo. Speranza che non è “un lieto fine da attendere passivamente, l’happy end di un film”, per citare le parole del Papa dopo l’apertura a Natale della Porta Santa, ma da intendere come una spinta a “trovare il coraggio per cambiare le cose che non vanno”.
La speranza è certamente parte dell’eredità che Francesco lascia ai cattolici. Un sentimento con il quale, dopo il dolore e le preghiere, i fedeli guarderanno al futuro della Chiesa, alla scelta del successore e a come saprà interpretare il ruolo che una comunità di un miliardo e mezzo di persone può ricoprire in un mondo in vorticosa trasformazione.
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