Come canta il ghiacciaio che si scioglie
Il regista Collizzolli a 3.100 metri sull’Adamello con un videomaker e un fonico: «Registriamo suoni e danze dal Lares, qui ora c’è un lago e la natura è cambiata»

Una lastra bianca che se osservata in trasparenza nasconde - incisi - millenni di storie. Temperature rigide costrette a piegarsi sotto il peso di un calore che non ha nulla di umano.
Rumori antichi che si ritrovano a dover seguire un ritmo sempre più incalzante, arrangiato per stare a tempo con velocità nuove. Un linguaggio universale, ma difficile da ascoltare. L’acqua scende e sale un canto.
“Il Canto del ghiaccio” è un progetto audiovisivo realizzato dal regista, produttore, scrittore e sceneggiatore Stefano Collizzolli e dal fotografo e video-maker Paolo Ghisu che, attraverso immagini e suoni “catturati” nell’arco di cinque mesi (tra l’inizio della primavera e la fine dell’autunno dello scorso anno) sul ghiacciaio del Lares, nel gruppo montuoso dell’Adamello, restituisce al pubblico un ritratto trasparente della bellezza e della vulnerabilità che caratterizzano le sembianze della natura nell’era del surriscaldamento globale.

«Quel ghiacciaio mi ha visto mettere per la prima volta i ramponi da bambino», racconta Collizzolli, che di quelle zone è figlio.
«Quando Paolo mi ha proposto di documentare quello che sta succedendo lassù (stiamo parlando di 1800 metri di dislivello e cinque ore di impervie salite a piedi) ho realizzato che erano più di dieci anni che non ci tornavo. E se non avessi saputo dove mi trovavo, non li avrei mai riconosciuti. Basti pensare che, dove prima c’erano distese di ghiaccio, ora c’è un lago di 800 metri. Ricorderò per sempre la sensazione di vertigine che ho provato la prima volta che me lo sono ritrovato di fronte: è stato un autentico crollo delle coordinate di base. Un tuffo inaspettato in una realtà talmente distante dall’aspettativa da risultare incredibile nonostante l’evidenza».
Ma è solo accettando le cose per quello che sono che ci si guadagna il privilegio di poterle fotografare nude.
Finalmente libere dagli stracci della giustificazione e dalle bende del negazionismo: «Nell’estate del 2024 la trasformazione, se paragonata a quella degli anni precedenti, è stata relativamente contenuta», continua il regista.
«Il bilancio di massa (rapporto tra la quantità di neve caduta e quella di ghiaccio sciolto) ovviamente è sempre in negativo, ma non al punto da definire la portata dello stravolgimento in atto. Per questo la nostra intenzione è quella di continuare a girare, riportare su le camere fisse e ripetere questa operazione per i prossimi cinque, forse addirittura dieci anni perché, va da sé, più passa il tempo, più il materiale raccolto diventa prezioso. In venti settimane di riprese abbiamo comunque avuto la possibilità di cogliere cambiamenti molto impattanti su più livelli, come quello della nuova popolazione animale e vegetale che ha iniziato ad abitare il ghiacciaio. Anni fa sarebbe stato impensabile vedere un larice spuntare dal ghiaccio a 3100 metri di altezza, dei camosci salire in quota o degli stambecchi spingersi ancora più in alto fermati solo dal confine tra la terra e il cielo».
Un flusso continuo. Una catena di azioni e reazioni. Una sorta di passo a due, dove se un danzatore avanza, l’altro è costretto a indietreggiare e viceversa. Spazi che si creano per essere riempiti.
Sembrano essere queste le regole del tempo che prosegue inesorabile il suo percorso, ma che non cancella e non dimentica nulla: «Tra le tante sorprese che questa esperienza ci ha presentato, ci sono state anche le tracce di uno spaccato della Prima guerra mondiale. Il Corno di Cavento, vetta che si trova appena sopra al ghiacciaio del Lares, infatti, è stato a lungo conteso tra Italia e Austria e i soldati venivano mandati lì a combattere in condizioni climatiche proibitive, per non dire letali. Il movimento del ghiaccio in fusione aveva ricoperto e preservato i resti della guerra e ora, sciogliendosi, sta restituendo tutto quello che si era preso: lattine, scale, pezzi di stufa, resti di baracche, così come i cadaveri dei caduti cristallizzati nel momento della loro morte e che oggi, a distanza di cento anni, vengono improvvisamente autorizzati a intraprendere il processo di decomposizione lì dove era stato interrotto. Sono immagini strazianti che sembrano quasi volerci mettere di fronte allo specchio della consapevolezza. Ecco umani, voi siete questo».
Oltre alla vista, tendenzialmente il senso più privilegiato dei cinque, questo documentario interpella anche l’udito, mettendo occhi e orecchie allo stesso livello.
«Sentire il rumore di un ghiacciaio che si scioglie è qualcosa di straordinario», prosegue Collizzolli.
«Sono suoni unici, destinati a estinguersi e che per questo abbiamo deciso di campionare. L’esperienza e il talento di Emanuele Lapiana, musicista e fonico, hanno fatto il resto, creando una colonna sonora che crediamo possa essere l’ingrediente segreto per trasformare il nostro progetto in un’esperienza emotiva per lo spettatore. L’obiettivo è quello di permettere al pubblico di lasciarsi andare, di entrare in una dimensione meditativa e di abbandonarsi ad essa».
Il progetto è stato inserito pochi giorni fa in una mostra ospitata al Muse di Trento, in occasione dell’Anno internazionale della conservazione dei ghiacciai con un’installazione ledwall che proietta un video di 8 minuti. La versione integrale (13 minuti) è invece pensata per la proiezione in sala.
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