Lo sci di fondo è morto, o forse no
Il cosiddetto snow farming come alternativa all’innevamento programmato: accumuli la neve, la ricopri di cippato e la conservi per la stagione successiva. Ma davvero può essere una soluzione?
Lo sci di fondo è al capolinea: se non ve ne foste accorti negli anni scorsi, è il caso di tornarci su. A dirlo sono alcuni elementi essenziali: la climatologia, innanzitutto. Nevica sempre meno, soprattutto nevica sempre meno in pianura. L’industria della neve ha adottato le sue contromisure, sempre più estremizzate. Ci sono cannoni sparaneve in azione sui ghiacciai, e questo non da ieri ma da anni.
Difficile avere le cifre sull’andamento storico del settore dello sci di fondo; ad esempio, dei suoi praticanti. E il fatto che la neve naturale diminuisca gradualmente, elemento fattuale incontrovertibile con buona pace dei negazionisti climatici, rende molto più difficile la pratica di uno sport che, in verità, avrebbe tante caratteristiche positive in quanto a basso impatto sul territorio.
Non solo: in genere si concentra l’attenzione sulle precipitazioni nevose, non considerando l’aspetto correlato: fa sempre più caldo. Sì, insomma, se anche nevica, la neve si scioglie. E le stagioni, se si affidassero solo alle bizze del tempo, sarebbero molto più corte, ma anche più “strabiche”, con nevicate copiose a marzo, invece che a dicembre.
Nelle vallate gelide che frequentavamo da piccoli, imbottiti come esquimesi perché si poteva facilmente arrivare a venti sottozero, dove il sole lo vedevi col binocolo, adesso ti ci puoi abbronzare. E il risultato è che butti via i giacconi, perché basta una leggera microfibra.
Lo sci di fondo magnifica lo stare all’aria aperta. Costa poco. Non richiede impianti. Tendenzialmente, non fa strage di alberi per creare i tracciati. A quanto pare, mentre questa disciplina è in netto calo, aumenta il suo corrispettivo, ossia lo scialpinismo.
Più scialpinismo, meno fondo
Ecco cosa dice l’ultimo Osservatorio Skipass di JFC: “Con una stima di 4,24 milioni di praticanti, per l’inverno 2024/2025 l’Osservatorio registra un aumento dell’1,8% rispetto all'anno precedente, un dato che conferma il crescente interesse verso le attività invernali. Tra gli sport, lo sci alpino rimane la disciplina più popolare, seguita da snowboard e scialpinismo, quest’ultimo in forte ascesa con un +68,7% di praticanti, riflettendo una maggiore propensione per le esperienze immersive nella natura".
Anche per questo, spiega il report, “si rileva una riduzione progressiva del tempo che gli italiani dedicano alle piste, a favore di altre attività in montagna. Mentre prima della pandemia gli sciatori italiani trascorrevano in media quasi 6 ore al giorno sulle piste, questa tendenza è cambiata: nella stagione invernale 2024/2025, il tempo medio di ore dedicate allo sci si attesta a 4 ore e 20 minuti al giorno. Si segnala, tuttavia, come vi sia un aumento significativo delle giornate passate in montagna, che crescono, rispetto allo scorso anno, di circa 2 giornate e mezzo. Quindi, anche se gli sciatori trascorrono più giorni in montagna rispetto al passato, dedicano parte di questo tempo a esperienze alternative come il relax in rifugio, attività di benessere e socializzazione”.
Senza i cannoni non ce la fai
Certo, tra lo sci di fondo e lo scialpinismo c’è una distanza per certi aspetti siderale, ma con un vantaggio chiaro a favore del secondo: se sali con le pelli lungo i pendii, li trovi sempre innevati, perché basta stare al limitare delle piste innevate artificialmente.
Il fondo, invece, sopravvive solo grazie all’innevamento artificiale: non sarà così dappertutto, ma lo è in moltissime località. Certo, l’uso dei cannoni sparaneve a quote medio basse si agevola delle nuove tecnologie d’innevamento: una volta, si ricorderà più d’uno, per “sparare” bisognava andare sottozero: per questo lo si faceva la notte. Adesso è possibile lavorare le piste… in piena estate, o quasi. La preparazione della stagione invernale è sotto gli occhi di molti, in queste giornate tiepidamente autunnali in cui si iniziano a intravvedere le “strisce bianche” che segnano i tracciati in divenire.
Dunque? Il fondo ha bisogno di neve artificiale, questo comporta un consumo energetico che giocoforza si riverbera sulle politiche dei costi. Questa disciplina, storicamente, costa poco o niente rispetto agli 80 euro a skipass giornaliero dello sci alpino. Ma è ovvio che anche i costi dello sci nordico aumenteranno, per ammortizzare le spese energetiche.
Snow farming: lo dice il Governo
L’alternativa a sparare è il cosiddetto snow farming. Una tecnica “istituzionalizzata” dal Piano di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnaac) approvato dal Ministero dell’Ambiente a inizio 2024, dopo un iter lungo, lunghissimo.
La montagna ha partorito il topolino, dissero in molti all’epoca. Tra le misure per la mitigazione ambientale, il Governo aveva inserito aveva elencato “una manutenzione accurata delle piste, un eventuale ombreggiamento delle stesse, la costruzione di barriere anti deposito, la piantumazione di alberi per proteggere le piste e l’innevamento naturale o artificiale, nonché l’allestimento di depositi di neve”.
Eccoli qui, i depositi di neve. Ma c’è un altro passaggio, nel Pnaac.
L’utilizzo dei soli impianti di innevamento artificiale esistenti e loro progressiva dismissione a favore di pratiche di mantenimento dell’innevamento più sostenibili
L’Istituto svizzero per lo studio della neve e delle valanghe, noto anche come SLF, la spiega così: “Da alcuni anni le località sportive invernali puntano sempre di più sullo snowfarming per conservare la neve durante l’estate. A tal fine, verso la fine dell’inverno vengono realizzati in appositi luoghi all’aperto grandi mucchi di neve tecnica che vengono poi ricoperti con uno strato isolante, ad esempio segatura o cippato di legno. Questo strato isolante protegge la neve sottostante evitando che si sciolga. La neve così conservata fungerà da base per la preparazione delle piste (sci di fondo o sci alpino) o dei trampolini per il salto con gli sci all’inizio dell’inverno successivo. Lo snowfarming consente di iniziare in anticipo la stagione invernale, indipendentemente dalle condizioni meteo, oppure di garantire la presenza della neve in un giorno X per un determinato evento sportivo”.
C’erano una volta le neviere
Il sito montagna.tv sottolineava ancora nel dicembre 2022 come pratiche diversificate di snowfarming esistano in realtà da molto tempo: “già in passato sono riportati esempi di conservazione di ghiaccio o neve, che avveniva, per esempio, per rinfrescare le abitazioni nel corso dell’estate. Di questi tempi, l’aumento dei costi energetici ha incrementato l’interesse verso tali applicazioni, con numerosi esempi di sistemi di condizionamento basati sulla fusione estiva della neve in diversi Paesi del mondo, come la Scandinavia, il Nord America, la Cina o il Giappone”.
In Italia, fino a cinquanta anni fa, c’erano le cosiddette neviere: manufatti in muratura o semplici buche realizzate per la conservazione della neve: “Potevano essere pubbliche, al servizio di una o più comunità, oppure private, ubicate nei cortili e nelle cantine di ville e palazzi signorili. La trasformazione in ghiaccio della neve all’interno delle neviere veniva favorita da regolari operazioni di battitura con strumenti in legno. Il ghiaccio nella stagione estiva veniva estratto dalla neviera, tagliato in lastre regolari e trasportato con mezzi trainati da animali nelle zone di consumo, dove veniva utilizzato ad esempio per la conservazione degli alimenti e la preparazione di bevande fresche e granite”.
Le critiche: così rispondiamo al cambiamento climatico?
Comunque sia, più che la tecnica, a far storcere il naso è l’ideologia che sottende la pratica: «Intanto si tratta di misure, quelle per la “coltivazione” della neve, che considerano soltanto la dimensione turistica del problema, come se non esistesse quella naturale», afferma Marco Merola, giornalista ambientale e docente al Master di II livello in Climate change adaptation and mitigation solutions del Politecnico di Torino, TEDx speaker e creatore del webdoc Adaptation.it sui temi dell’adattamento al cambiamento climatico
«Gli esperti del ministero danno per scontato che nevica poco e che nevicherà sempre meno (negli ultimi due anni sulle Alpi le precipitazioni nevose sono state inferiori del 63%). Se nel passato la stagione sciistica arrivava a maggio, almeno sopra una certa quota, ora già a febbraio rischi di non avere più nulla».
Altra contraddizione: da una parte il Piano mette in conto che l’innevamento artificiale debba andare a finire, dall’altra pone la necessità di come garantire la continuità del turismo dello sci. Ecco la risposta – sottolinea Merola - conservando la neve da utilizzare nella stagione successiva.
Ma può essere una risposta al cambiamento del clima? Possono essere queste, per il legislatore, le migliori misure di adattamento per l’alta montagna e i sistemi nevosi?
Il messaggio e i conti della serva
Il messaggio è ben chiaro, secondo Merola: non ci interessa nulla che siano cambiati i cicli stagionali; che le temperature siano molto più elevate; che lo zero termico addirittura sia stato mappato negli ultimi tempi anche a 5.300 metri ed oltre.
«È evidentissimo che siamo nel pieno di una rivoluzione climatica che si è già in parte compiuta ma in parte deve ancora compiersi, perché sappiamo che il processo di fusione dei ghiacciai è in corso; che sta nevicando sempre meno; che ad alte quote invece di nevicare piove. E questo ovviamente impedisce il ripascimento delle masse glaciali, perché la pioggia ovviamente non fa bene. Di contro il legislatore, che ci ha messo cinque anni per varare questo piano di adattamento, conclude che le migliori possibili soluzioni di adattamento per l’ambiente montano sono quelle di proteggere la neve sotto la segatura o di riparare le piste con alberi».
Merola ha provato anche a fare un conteggio per ombreggiare 1200 chilometri di piste da sci del Consorzio Dolomiti Superski. Con una pianta ogni due metri, ne servirebbero un milione e 200 mila sulle montagne di casa, 6 milioni e 700 mila lungo le piste d’Italia. Senza contare la pericolosità che gli alberi rappresenterebbero a bordo pista.
E come conservare la neve in mega depositi? Proteggendola con teli di nylon o con segatura? Per innevare una pista lunga un chilometro, larga circa 50 metri e con uno spessore di 40 centimetri, sono necessari almeno 23 mila metri cubi di neve; se è artificiale sono necessari 9200 metri cubi d’acqua. Con una spesa complessiva di 80 mila euro a km. Quanti metri cubi di segatura, e quindi di alberi, servirebbero per proteggere appena un chilometro di pista?
Il caso di Forni Avoltri
Pochi giorni fa, a Forni Avoltri hanno di fatto annunciato l’apertura della stagione dello sci alla Carnia Arena: diecimila metri cubi di manto artificiale “immaginato dalla scorsa stagione e lasicato a riposare per vari mesi sotto un’abbondante coltre di cippato di legno”.
«È il quarto anno che sperimentiamo questa tecnica – illustra Manuele Ferrari, padrino della Carnia biathlon arena e oggi consigliere regionale Fvg –. In primavera, coprendolo con uno strato di 30-35 cm di cippato e teli anti-scongelamento in materiali ultra-tecnologici, abbiamo stoccato circa 10 mila metri cubi di neve artificiale».
Circa un terzo della neve immaginata si perde strada facendo ma il bilancio, dicono da Forni, è largamente positivo. Qui entra in gioco, come per il destino delle stazioni sciistiche di bassa o media quota, il solito endemico conflitto tra economia e ambiente. Ma è più una questione di visioni, diciamo di educazione ambientale, che di danno all’ecosistema.
Molte di questi piccoli comprensori sciistici cercano di rianimare il malato terminale con pratiche a volte considerate sconsiderate, in ossequio all’economia di territorio: sono posti di lavoro. Quando ci sono di mezzo stipendi, bocche da sfamare, chi guarda alle ragioni ambientali viene preso per matto. Ma altrove, altopiani e territori di media quota sono stati ricovertiti a una diversa fruizione della montagna, peraltro in una dimensione di mercato che premia queste scelte: alla monocultura dello sci, peraltro uno sport per ricchi ora più che mai, si sostituisxce un carnet di proposte che vanno dalle ciaspolate allo sciaalpinismo, dall’enogastronomia alla cultura di territorio.
Toh, c’è anche Cortina
Comunque sia: uno pensa “i piccoli cercano di salvarsi” e poi scopre che lo snowfarming è pratica in uso anche ai colossi. Da Cortina d’Ampezzo Alberto Dimai, presidente dell società Ista, annunciava a fine della passata stagione: «Veniamo da una stagione record, con 173 giorni di attività, compresi quelli in cui i coraggiosi si sono fiondati in pista anche col maltempo, ovviamente compatibile. Bene, intendiamo andare oltre: con lo snowfarming. Conserveremo la neve ereditata da questo fine stagione davvero abbondante. La accumuleremo in particolari siti protetti, che ricopriremo con materiali isolanti, dei teli di nylon, in modo da evitare che fonda nel corso dei mesi più caldi». Sul Col Gallina si preferiscono i teli ritenuti più protettivi.
Avete presenti quelli sul ghiacciaio della Presena?
Un altro caso molto discusso: “Dal 2008 copriamo il Ghiacciaio del Presena con i teli geotessili, particolari tessuti in grado di ridurre del 50% lo scioglimento estivo di neve e ghiaccio. Siamo consapevoli che, purtroppo, i teli non rappresentano la soluzione al problema: rallentano, ma non bloccano, la fusione del ghiacciaio. Nonostante questa protezione, e nonostante ogni inverno sul ghiacciaio si depositino 350.000 mᶾ di neve, registriamo infatti una perdita annuale di 600.000 mᶾ di massa glaciale”.
E però:
La vera soluzione consiste nell’adozione di misure internazionali non più rimandabili per la protezione dell’ambiente con lo scopo di ridurre le emissioni dei gas responsabili del riscaldamento globale.
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