Femminicidio Cecchettin, un percorso che va oltre la sentenza
Molto resta a noi da fare, grazie alle cose stesse che il destino di Giulia ha messo in moto, come ci ricorda papà Gino. Serve un cambiamento più fondamentale, agito da un capillare e costante lavoro di prevenzione, educazione e promozione
Davvero non c’è rimedio alla tragedia di Giulia Cecchettin, a questo ennesimo femminicidio, al dolore della famiglia e delle persone a cui era ed è cara - tutte e tutti, ormai.
In questo senso, è profondamente vero ciò che ha detto il padre Gino: «Abbiamo perso tutti». Certamente, non essendo riusciti a impedirlo - come società, comunità, istituzioni - in primissimo luogo e sopra ogni cosa abbiamo perso la vita preziosa e promettente di Giulia. Insieme, anche, a tutto ciò che questa ragazza, che stava per diventare una giovane scienziata, avrebbe potuto dare al mondo per renderlo un posto migliore.
Lo stesso Gino Cecchettin ci suggerisce, tuttavia, che molto resta a noi da fare, grazie alle cose stesse che il destino di Giulia ha messo in moto.
Intorno, infatti, vediamo i segni della reazione migliore, a partire dal movimento di donne, spesso molto giovani, attivatosi - trovando nelle parole di Elena Cecchettin l’interpretazione più forte e coerente - e all’onda più vasta che ha suscitato e che ha attraversato l’insieme delle nostre comunità, dopo questa ennesima vicenda crudele.
Una vicenda all’incrocio epocale tra patriarcato persistente e anacronistico e maschilismo ancora tronfio, infestante: facce diverse dello stesso arcaico predominio che, di continuo, ribadisce sé stesso nella microfisica del potere e delle relazioni come sulla scena sociale più vasta, provando a riprendersi la Storia. Non ci riuscirà, ma intanto si agita malmostoso, a volte aggressivo, sempre feroce, anche quando si mimetizza. Combatterlo - “facendo rumore” e scavando in profondità - è quanto si può e si deve fare guardando avanti.
Pur consapevole che nessuna sentenza gli ridarà la figlia e pur chiedendosi, come noi, in attesa delle motivazioni, quali siano le ragioni per cui non sono state riconosciute alcune aggravanti - in primis la crudeltà (probabilmente, per la differenza tra la sua definizione giuridica e quella comunemente intesa; più difficile capire la mancanza dell’aggravante di stalking) - ancora Gino Cecchettin ha riconosciuto l’importanza della sentenza della Corte veneziana.
In effetti, vi si è giunti in tempi rapidi, col massimo della pena irrogato, non senza tener conto della giovane età dell’imputato Turetta ma non facendone, tuttavia, un’attenuante, bensì procedendo a giudizio sulla puntuale analisi dei fatti. Vagliandoli, cioè, come commessi da una persona capace di intendere e di volere e, dunque, passibile di un severo richiamo alla propria responsabilità e alla pena conseguente.
Vedremo le motivazioni, appunto, ma forse già finora si può valutare la sentenza come ispirata a rigore e senso di giustizia secondo Costituzione, in un difficile esercizio di equilibrio da parte della giuria togata e popolare.
Certo, come ha scritto ieri qui Emma Ruzzon, «una sentenza non basterà a salvarci» e, se è per questo, neanche le pur necessarie leggi. Serve un cambiamento più fondamentale, agito da un capillare e costante lavoro di prevenzione, educazione e promozione, da una presa di coscienza più vasta e radicale, di persone, società e istituzioni. La storia di Giulia lo grida. La Fondazione che porta il suo nome, e che merita ogni sostegno, si incaricherà di ricordarlo. Nessuno dev’essere da meno.
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