Un anno dopo Giulia, Emma Ruzzon: «Sono mancate risposte strutturali»
La presidente del Consiglio degli studenti dell’Università di Padova: «C’è ancora la retorica secondo cui la donna non si tocca neanche con un fiore: significa non mettere in discussione la cultura che genera la violenza»
Era il 20 novembre 2023, una marea umana si riuniva nel cortile del dipartimento di Ingegneria dell’informazione dell’Università di Padova. Un momento di raccoglimento spontaneo, nato dai compagni di studi. Applausi, tintinnio di chiavi, grida e lacrime in un infinito minuto di rumore per Giulia. In prima fila, Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti dell’Università ed esponente di spicco dell’Unione degli universitari. Che un anno dopo prova a tracciare il bilancio dell'eredità di quel femminicidio che ha scosso un Paese intero.
Emma Ruzzon, a un anno di distanza, cosa rimane?
«Rimane ancora quel rumore che da qui si è dilagato in tutta Italia, diventando un simbolo della lotta contro la violenza di genere anche fuori dalla nostra penisola. Rimane il ricordo di quanto ci ha toccato, quanto ci ha sconvolto. E di quanto fosse stupido ci sconvolgesse non essendoci mai occupati di violenza di genere o comunque non avendo mai trovato delle soluzioni. Ma rimane anche la consapevolezza che a un anno di distanza non è davvero cambiato granché. Ne abbiamo parlato tanto, ma la cultura che giustifica, legittima e continua a gettare benzina sul fuoco della violenza di genere esiste ancora. Quel rumore deve rimanere forte costantemente. Altrimenti continueremo a stupirci ogni volta che un’altra Giulia verrà uccisa».
Però l’ondata di indignazione di quei giorni è stata dirompente: le manifestazioni, il dibattito che sembrava improvvisamente rinato. L’uccisione di Giulia è stata un momento di rottura?
«Sul momento sì. Quando abbiamo convocato il primo presidio di ricordo non avevamo idea di quanta gente sarebbe venuta. Poi abbiamo iniziato a veder arrivare gli studenti a piccoli gruppetti, finché si è riempito il cortile: eravamo in migliaia. E si vedevano le facce di chi non si era mai interrogato sul tema e lo faceva per la prima volta. C'erano persone non vicine alla causa, che prima davano per scontato che i femminicidi accadessero in determinati contesti sociali e per la prima volta si sono sentiti parlare di cultura patriarcale. Tutti i giorni, in prima serata. Ricordo l'intervento di un uomo alla manifestazione del 25 novembre che diceva: "Mi sono reso conto di aver sbagliato". Quella cosa è stata potente. In quel momento servivano risposte strutturali. E così non è stato. C’è ancora la retorica secondo cui la donna non si tocca neanche con un fiore: significa non mettere in discussione la cultura che genera la violenza».
Oggi c’è maggiore sensibilità verso il problema?
«Credo di sì. Quell’evento ha toccato molte persone, chiunque si ricorda cosa ha significato parlare di violenza di genere in quel periodo. Non so se sia nata una nuova ondata femminista, ma sicuramente c'è stato un movimento che ha generato più consapevolezza. Ora va abbracciata, cioè vanno date risposte».
Giulia doveva essere l'ultima e non lo è stata, l'indignazione c'è stata ma si è fermata. L'essere umano si abitua a tutto. C'è una sorta di mitridatizzazione, di assuefazione al male, alla violenza?
«Ci sono casi simbolo che toccano l'opinione pubblica in maniera più forte di altri. Se ci fossero state piazze di quella portata per ogni altro femminicidio, forse saremmo a un punto diverso. Dobbiamo tutti interrogarci sul perché».
Lei lo sta facendo?
«Insieme all’associazione (l’Udu, ndr) stiamo provando a capire come ricominciare a parlarne, come riaccendere lo spirito di un anno fa. Bisogna riconoscere cosa non è andato, perché se è vero che per molti c'è stata una presa di consapevolezza, è altrettanto vero che a un anno di distanza sentiamo ancora battute vomitevoli che a volte riguardano proprio la vicenda di Giulia. Significa che qualcosa non è arrivato. A quelle persone bisogna riuscire a parlare».
È stata più volte rivendicata la parola “femminicidio”, che è un punto d’arrivo ma anche un punto di partenza. Dare un nome alle cose ci aiuta a riconoscerle?
«Certo. Noi abbiamo da subito detto che quella morte andava chiamata con il suo nome. Di scomparsa si parla quando una persona muore per malattia, di tragedia quando c'è un incidente stradale. Se è l'ennesima vittima di femminicidio, uccisa da un uomo per motivi di possesso, allora c'è un altro termine. Non volerlo utilizzare significa negare il problema».
Che senso ha parlare di patriarcato oggi?
«La maggior parte delle persone la considera una parola vecchia: riguarda i nostri nonni, quando c'era il pater familias e la donna stendeva i panni. Non è così. Ovviamente quel tipo di famiglia non è più frequente, ma il fatto che le donne non siano più intorno al focolare e vadano a lavorare non significa che nel luogo di lavoro non ci siano discriminazioni, che non esista il tetto di cristallo. Ce lo dicono tutti i dati che le paghe delle donne sono più basse, che a loro viene chiesto se vogliono rimanere incinte, che le donne in ruoli apicali sono poche. Che la donna è ancora ipersessualizzata e che c'è un problema enorme con il consenso».
Ritrovarsi in questa cultura non è una colpa, ma come si cambia un fenomeno sociale strutturale, atavico?
«Tutti ci siamo nati, ma è compito di ognuno riconoscerlo e togliere potere a questa cultura. La differenza tra colpa e responsabilità è fondamentale. Ci sono cose molto concrete che si potrebbero fare: leggi che garantiscano salari uguali a uomo e donna, che tutelino realmente le vittime di violenza di genere, che tutelino l'autodeterminazione dei corpi che in Italia sta prendendo una piega sempre più vicina a quella degli Stati Uniti (che detto oggi è particolarmente amaro). Dalle elementari bisognerebbe parlare di rapporti tra persone, che non significa parlare di preservativi, bensì educare al consenso, a cosa sono i ruoli di potere, il motivo per cui le leggi sull'aborto e sul delitto d'onore sono così recenti, come il diritto di voto per le donne».
Come rappresentanza studentesca avete gridato la necessità che il cambiamento partisse dall’università e dai luoghi d’istruzione. Cosa è stato fatto?
«A Padova abbiamo presentato una serie di richieste puntuali alla rettrice e alla governance del nostro ateneo, in cui chiedevamo da un lato delle azioni di prevenzione, quindi corsi di formazione, e dall'altro degli strumenti di cura come lo sportello antiviolenza. Sono stati fatti dei buoni passi in avanti, sono stati stanziati fondi. È nato uno sportello che ha i presupposti per funzionare bene, sicuramente deve essere messo in rete in maniera più efficace con le realtà territoriali. Per quanto riguarda i corsi, purtroppo non sono ancora obbligatori ma non possiamo lasciare che solo chi è interessato al tema lo approfondisca, altrimenti continueremo a non parlare a chi ne ha più bisogno. Per arginare il problema serve la volontà politica».
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