Femminicidi, la prefetta Pellizzari: «Molti genitori non conoscono i loro figli»

Padovana, è stata vicecapo della Polizia di Stato, è membro del cda della fondazione Giulia Cecchettin: «Metterò la mia esperienza a disposizione delle donne vittime di violenza»

Enrico Ferro
La prefetta Maria Luisa Pellizzari
La prefetta Maria Luisa Pellizzari

È stata la prima donna ad assumere il ruolo di vicecapo della Polizia di Stato e adesso potrà mettere i suoi 40 anni di esperienza a disposizione della Fondazione Giulia Cecchettin.

Maria Luisa Pellizzari, nata e cresciuta a Montagnana e poi trasferita a Padova dove ha studiato al liceo Nievo e a Giurisprudenza, è uno dei membri del cda dell’organizzazione data alla luce da Gino Cecchettin e dai figli Elena e Davide.

Maria Luisa Pellizzari non ha bisogno di presentazioni: è stata alla Criminalpol, alla Direzione investigativa antimafia nell’anno degli attentati a Falcone e Borsellino, alla Squadra mobile di Roma e poi anche al vertice dello Sco.

Dopo aver diretto la Scuola di Polizia ha chiuso la carriera da Commissario straordinario del Governo per la gestione del fenomeno delle persone scomparse. Da qualche giorno è in pensione.

Prefetta Maria Luisa Pellizzari, è contenta per questo nuovo compito?

«Inizio dicendo che, secondo me, Gino Cecchettin è una persona straordinaria. Spero veramente di contribuire nel miglior modo possibile. Esperienza ne ho in questo settore, cercherò di metterla a disposizione della fondazione e di tutte le donne che ancora purtroppo vivono situazioni di disagio e spesso di violenza».

Nel corso della sua carriera si è occupata spesso di femminicidi e violenza di genere?

«Alla Squadra mobile d Roma mi occupavo proprio di questo, agli inizi del mio percorso professionale. Parliamo di quasi 35 anni fa. Non c’erano norme, non c’erano leggi. Non se ne parlava con l’enfasi di oggi ma il fenomeno c’era eccome. Quindi io mi sono occupata lungamente di violenza di genere in quel periodo, e me ne sono occupata anche con quest’ultimo incarico. Spesso i femminicidi iniziano con la scomparsa di una donna».

Cos’è cambiato, secondo lei, nel corso di questi 35 anni?

«La percezione, sicuramente. Quando mi sono arruolata in polizia non c’era questa attenzione, non c’erano focus sull’argomento e strumenti normativi. Secondo me sono cambiate anche le donne, che oggi denunciano di più e sono più consapevoli dei pericoli che corrono».

E quindi cosa resta da fare?

«Diciamo che forse dobbiamo lavorare un po’ di più sull’altra metà della società: i maschi. La concezione di superiorità, il non sapere accettare la sconfitta di un rapporto che finisce. Lo dice una donna che ha un adolescente in casa. Non bisogna essere esageratamente protettivi con i nostri figli: vanno accompagnati nei loro insuccessi e nelle loro frustrazioni ma non protetti totalmente».

Lo dice come madre o come poliziotta?

«C’è una cosa che è emersa nell’ultimo mio incarico, leggendo le denunce di scomparsa degli adolescenti. Spesso i genitori non sanno niente dei figli. Noi facciamo domande per avere dei punti di riferimento e spesso scopriamo che madri e padri non sanno chi sono gli amici, non sanno chi è la fidanzata, non sanno chi frequentano, dove vanno e cosa fanno».

Leggendo il memoriale di Filippo Turetta emerge la figura di un ragazzo normale anche se lui si definisce “sfigato” ed emarginato.

«Quando parlo del valore dell’ascolto intendo proprio questo. La scuola dovrebbe fare di più ma anche la famiglia. La fondazione ha come primo obiettivo quello di entrare nelle scuole per parlare di affettività. È importante cominciare finché sono piccoli».

Com’è venuta a contatto con Gino Cecchettin?

«Ci siamo conosciuti a Padova quasi per caso e ho dato la mia disponibilità per qualsiasi cosa potesse essere utile, visto che c’era questo progetto. Ora che sono in pensione, e che non c’è più incompatibilità, posso liberamente dedicarmi a fare un’attività di volontariato. L’iniziativa mi sembra nobile e meritoria».

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