Femminicidio Cecchettin, la condanna a Turetta non basterà a salvarci
Facciamo come Gino Cecchettin: nel dolore più grande di chi sa che nulla potrà restituire la vita alla figlia, ci indica la tenacia con cui dobbiamo pretendere che questo massacro si fermi, ribadisce quanto sia importante ricominciare dai luoghi d’istruzione
«Un processo assomiglia a un dramma in quanto che, dal principio alla fine, si occupa del protagonista, non della vittima».
Non serve scomodare Hannah Arendt per rendersi conto che la storia di cui deve importarci oggi non è la pronuncia di una sentenza di condanna, nonostante possa essere percepita come un effetto tangibile, concreto, quasi desiderabile. In realtà non lo è, e occupa una dimensione superficiale di fronte all’estensione di un problema sociale come la violenza di genere.
Sia chiaro: oggi la giustizia, per quanto riguarda Filippo Turetta, ha fatto il suo corso.
È molto facile però, quando un singolo caso parla con così tanta forza al cuore di così tante persone, cadere nel commento sensazionalistico, nel commento giustizialista oppure nella ricerca della giustificazione, nel tentativo di assoluzione collettiva in virtù della condanna di una persona o nell’illusione del suo effetto deterrente.
Credo però che stazionare in queste prime impressioni sia fuorviante, che si corra il rischio di rimanere impantanati nella mediocrità.
Per questo penso che sia dovere di tutte e tutti noi commentare questa sentenza con sobrietà e rispetto, e andare oltre, perché le protagoniste della nostra storia escono di scena prima dei processi. Certo, la giustizia, per quelli che sono i suoi meccanismi, oggi ha fatto il suo corso; ma la giustizia, intesa come entità che agisce per giudicare le azioni, non restituisce la vita, né a Giulia Cecchettin né alle altre vittime di femminicidio.
Dall’11 novembre 2023, data del femminicidio di Giulia, sono stati oltre cento i femminicidi nel nostro Paese. Quindi, oggi, per quel che mi riguarda, e per quello che riguarda le 101 vite di donne soffocate in questi 13 mesi, per quello che riguarda ognuna di noi, non c’è giustizia.
Giusta è una società in cui possiamo avere il diritto di restare vive, in cui non dobbiamo avere il terrore che uno sconosciuto o, peggio, una persona di cui ci fidiamo, possa farci del male. Abbiamo la responsabilità collettiva di muovere il discorso pubblico oltre al commento delle sentenze, di raccontare delle storie che restano fuori dalle aule dei tribunali, che riguardano vite spezzate, o vite possibili, tenute in scacco da una società che, anche oggi, come ieri e come domani, resta, profondamente, ingiusta.
Facciamo quindi come Gino Cecchettin, che nel dolore più grande di chi sa che nulla potrà restituire la vita alla figlia, ci indica la tenacia con cui dobbiamo pretendere che questo massacro si fermi, ribadisce quanto sia importante ricominciare dai luoghi d’istruzione, promuovendo la cultura del consenso, del rispetto verso l’altro, l’educazione sessuo-affettiva. Ricordiamoci l’importanza della prevenzione e della protezione, e di come questi ambiti fondamentali per la sopravvivenza e la vita delle donne meritino investimenti adeguati e continuativi nel tempo. Impegniamoci a cambiare i contesti piccoli attorno a noi, e la cultura patriarcale che si insinua in tante sfumature nelle nostre quotidianità. Impariamo a guardare oltre alla superficie, a immergere le mani nel torpido e a provarlo a cambiare davvero, perché non è una sentenza che ci salverà o farà sentire al sicuro. —
Riproduzione riservata © il Nord Est