Femminicidio a Udine, De Nicolo: «Studiamo come andare su Marte ma non riusciamo a sorvegliare un uomo»
L'ex pm ha perseguito reati per decenni a Udine, Venezia e Trieste Oggi analizza l'ennesima tragedia: «I posti nelle carceri non bastano»

I crimini contro le donne, fino allo scorso anno, li perseguiva. Oggi se li vede scorrere davanti, raccontati sulla timeline dello smartphone e sulle pagine dei giornali che acquista ogni giorni.
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Ma l'amarezza per Antonio De Nicolo, entrato in magistratura nel 1981 e uscito da procuratore della Repubblica a Trieste nel marzo 2024, dopo diverse funzioni esercitate anche a Udine e Venezia, quella è sempre la stessa. Lo stesso maledetto senso di impotenza a ogni vita perduta, a ogni occasione in cui la nostra società civile non è riuscita a proteggere e fare di più.
Dottor De Nicolo, ci risiamo... Un'altra vittima, un'altra esecuzione per mano di un uomo di cui lo Stato si sarebbe dovuto occupare diversamente. Cos'ha provato nell'apprendere del femminicidio di Udine?
«Una sensazione non nuova, purtroppo. L'ennesima dimostrazione che manca una visione integrata del mondo dell'esecuzione penale».
Cosa non ha funzionato, questa volta?
«Parliamo del braccialetto elettronico, innanzitutto. Quello per le persone in detenzione domiciliare è collegato a una centralina elettronica che si trova nella loro abitazione. Se, come in questo caso, chi lo indossa ha un regolare permesso e comunica alla struttura di sorveglianza che ne sta per usufruire, l'uscita da casa non è registrata come una violazione».
Quindi, a differenza di quanto accade per i braccialetti utilizzati nei casi di stalking, in cui a indossarli sono persecutore e persona presa di mira e si monitora costantemente la distanza fra i due, in vicende come quella di Udine non c'è più alcun modo di sottoporre il soggetto che sta usufruendo di un permesso a verifiche.
«Ed è inaccettabile. In tempi in cui studiamo come andare su Marte non possiamo accettare di non utilizzare la tecnologia per sorvegliare un uomo e salvare vite umane. Tanto più in casi di detenzione domiciliare e di indicatori di pericolo, come in questa occasione».
Da più parti si levano appelli a modificare un quadro normativo che spesso consente alle forze dell'ordine di intervenire solo a sangue versato. È una richiesta logica. Cosa serve per accoglierla?
«La volontà, prima di ogni altra cosa. Siamo onesti con noi stessi. Analizziamo i numeri degli istituti di pena. Negli Stati Uniti, per citare un esempio, ci sono un milione di posti, nelle carceri, per 300 milioni di abitanti. In Italia, su 60 milioni di abitanti, i posti sono meno di 50 mila. I conti sono presto fatti. In tantissimi Paesi non esistono gli arresti domiciliari. In Italia sì perché non abbiamo più posto nelle carceri».
E costruirne di nuove creando altri posti di lavoro?
«Mancano le risorse. Un conto è ristrutturare caserme dismesse o altre sedi idonee per farle diventare carceri, un altro è pagare tutti gli agenti di custodia che ci vorrebbero».
Ma gli altri Paesi ce la fanno...
«Dipende dall'utilizzo delle risorse che si sceglie di fare. Le scelte sono a monte. E parlo anche di come sono utilizzati i pochi posti disponibili negli istituti di pena».
In che senso?
«Nel senso che moltissimi sono occupati da persone con problematiche di natura psichiatrica perché mancano le Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, ndr). Se chi è incapace di intendere e di volere ma è pericoloso non ha luoghi diversi dal carcere in cui essere recluso ecco che finisce per stare in cella. E i posti si riducono, così come avviene per tantissimi casi di persone alle prese con la tossicodipendenza. Vicende che andrebbero affrontate diversamente».
E invece ci troviamo a piangere un'altra vittima, a commiserare altri ragazzi orfani. E a ragionare su ciò che sarebbe stato possibile fare e non è stato fatto.
Qui Udine, anno 2025. Con tanto dolore e senza una prospettiva.
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