L’ergastolo “inumano”, la tragedia vera e quella che va in scena in aula
Il processo contro Filippo Turetta e l’arringa di difesa. Non aver compreso cosa sia l’amore, e come esso debba governare la vita personale e le relazioni con le persone amate, è esso stesso un ergastolo affettivo. E quando questo accade con frequenza, come sta accadendo in questa nostra Italia, non è solo una faccenda processuale
Ho incontrato un omicida condannato all’ergastolo nel carcere di Montorio, Verona. Era un ‘iniziativa per portare i libri dietro le sbarre. E avevano aderito persone incarcerate per vari reati, tra cui l’omicidio.
Il carcere è un luogo orribile. Difficile pensare che serva a qualche forma di recupero dei detenuti. Isola, per qualche anno, per molti anni, potenzialmente per tutta la vita. L’ergastolo è questo: l’espressione della punizione condotta sino ai limiti concessi dal nostro vivere civile. Appare, a taluni, una vendetta eccessiva, qualsiasi sia stata l’uccisione. Ad altri un atto di giustizia, correlato proprio al tipo di delitto.
Ma i fautori o contrari all’ergastolo dovranno convenire che si interviene quando il male ha già agito, cioè quando qualcuno è stato sconfitto.
Il carcere a vita assume la forza di un simbolo, pur debole come reale funzione deterrente, nemmeno la pena di morte riesce a fermare le mani omicide. Lo tolleriamo, nell’impossibilità di educare tutti al rispetto della vita, come strumento di riserva per la gestione delle nostre crudeltà e ci raccontiamo che possa prevenire realmente gli ammazzamenti nel tempo della quotidianità. Serve per non sentirsi tutti sconfitti e non solo le vittime.
Per giungere, comunque, alla pena si deve attraversare una lunga rappresentazione e in quella a cui stiamo assistendo, durante il processo a Filippo Turetta, luccica l’abilità oratoria del suo avvocato quanto fa rumore il silenzio dell’omicida. Capiamo, tra dotte citazioni, che tutti quelli che non sono Escobar non hanno malvagità D.O.C. e tutti quelli che non hanno compiuto 25 anni non controllano adeguatamente le emozioni ingovernabili, quindi agiscono come Escobar pur senza esserlo. Bisogna aver spento 25 anni candeline (questo argomento potrebbe essere usato anche per difendersi da esami universitari finiti male).
Tutto dentro le regole, ci mancherebbe. È il mestiere, nel gioco delle parti: io parlo e tu stai con il capo chino.
Eppure certi delitti, che contengono certe morti, mostrano, facilmente, che tutta questa rappresentazione è lontanissima dalla gravità dell’accaduto, ne è quasi estranea. È un rito che non riesce a comunicare con il dolore, la rabbia, la non accettazione della tragedia.
Perché certe morti, non vorrei nemmeno pronunciarla questa parola, si producono in quel territorio doloroso e complesso dove si usa la parola amore; luogo tempestoso dove persone, che dicono di amare o di aver amato, uccidono. È assai peggio dei teatri di guerra, anch’essi riprovevoli, dove però il nemico è sconosciuto e inconoscibile. Qui hai avuto parole, gesti, intimità, condivisioni, in certi casi figli assieme. Hai intrecciato vita, non puoi toglierla, soprattutto quando è appena iniziata.
È un territorio particolare, dove la sceneggiatura processuale dovrebbe riconoscere che la lacerazione non sarà ricomposta mai e che vale, come lenitivo, un antidolorifico istituzionale: l’esplicita dichiarazione che uccidere chi si ama è il peggiore dei crimini e assume la dimensione dell’inaccettabilità assoluta. Per questa inaccettabilità si dovrà pagare una pena, che comminerà la giustizia.
Ma non aver compreso cosa sia l’amore, e come esso debba governare la vita personale e le relazioni con le persone amate, è esso stesso un ergastolo affettivo.
E quando questo accade con frequenza, come sta accadendo in questa nostra Italia, non è solo una faccenda processuale.
È, ancora una volta, faccenda di tutti: facciamo ancora troppo poco rumore.
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