Omicidio Cecchettin, dopo la condanna di Turetta restano ora il silenzio e l’azione umana

Talvolta le parole sono impotenti: dicono poco, dicono male. O non dicono affatto. Esprimono in parte minima e confusa il magma emotivo che ci sconvolge e che, pure, in qualche modo forse ci avvicina, nel riconoscimento di una fragilità e di un dolore che accomunano

Antonella Sbuelz

Silenzio. Alle volte ci si rende conto che l’unica reazione possibile e umanamente dignitosa di fronte a drammi indicibili sarebbe il silenzio.

Perché talvolta le parole sono impotenti: dicono poco, dicono male. O non dicono affatto. Esprimono in parte minima e confusa il magma emotivo che ci sconvolge e che, pure, in qualche modo forse ci avvicina, nel riconoscimento di una fragilità e di un dolore che accomunano.

Eppure la morte di Giulia - con la sua carica emblematica, con i suoi dettagli tragici e strazianti- non sembra poter accettare il silenzio, perché rappresenta un dramma collettivo e un trauma condiviso, capaci di coinvolgere in modo profondo tutte e tutti noi.

E che ci costringe a porci domande cui sembra difficile trovare risposta.

Abbiamo spesso ceduto alla tentazione – consolazione? - di credere che un atto brutale ed estremo come l’omicidio sia in qualche modo associabile a chi ha subito a sua volta violenza: la violenza, dunque, come forma di rivalsa, patologica e crudele, nei confronti di un mondo che ha causato sofferenza, portando a un impulso di morte più forte di ogni istinto di vita, più forte di ogni empatia e pietà.

Sempre più siamo costretti ad ammettere che non è così. Spesso il male si nasconde nella banalità di ragazzi che sembrano per bene. Nei ragazzi della porta accanto.

La complessità del nostro presente ha radicalizzato le differenze e ha estremizzato le contraddizioni anche nelle nuove generazioni, che sento di conoscere bene.

Esiste ormai un baratro tra ragazze e ragazzi impegnati nel sociale, disponibili al volontariato, alla ricerca di senso profondo – non fanno notizia, eppure non sono pochi- e ragazzi demotivati, persi, fragili e confusi, privi di qualsiasi orizzonte di attesa.

Il bisogno di appartenenza dei giovani– la necessità di sentirsi parte di un gruppo in cui riconoscersi e identificarsi- è un’esigenza fortissima, da sempre. Forse oggi – con la dissoluzione, almeno ai loro occhi, di utopie e riconoscimenti ideologici - lo è ancora di più.

Le derive nel quotidiano sono piccole o estreme, talvolta apparentemente banali, altre tragiche e strazianti.

E richiedono interventi seri, sempre più capaci di incidere affettivamente, anche grazie alla prevenzione dei disagi, sul percorso di maturazione dei nostri e delle nostre adolescenti.

«La difesa di un imputato è un diritto involabile...» ha affermato qualche giorno fa Gino Cecchettin , padre di Giulia, in uno accorato scritto sui social.

«Tuttavia, credo che nell’esercitare questo diritto sia importante mantenersi entro un limite che, pur non essendo formalmente codificato, è dettato dal buon senso e dal rispetto umano.

Travalicare questo limite rischia di aumentare il dolore dei familiari delle vittime e di suscitare indignazione in chi assiste. Io ieri mi sono sentito nuovamente offeso e la memoria di Giulia umiliata».

Sono parole di dolore, di delusione, di tormento. Nonostante tutto, non di rabbia. Sono parole che obbligano a una riflessione comunitaria.

A quest’uomo e alla sua famiglia – come a quelle delle troppe vittime che ancora straziano una collettività che vorrebbe dirsi civile – va il nostro abbraccio, la nostra vicinanza, il nostro sostegno.

Che non devono durare solo il tempo dell’emozione, ma estendersi nel tempo dell’azione: educativa, culturale, politica. In sintesi: umana.

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