Ora è un libro la storia di Pasquale Guadagno, orfano di femminicidio
«Figli di nessuno» (Rizzoli) racconta il tormentato rapporto tra padre (diventato assassino) e figli. Il delitto nell’aprile del 2010, la gelosia come movente. L’abstract: «La morte è arrivata piano. Molti anni prima»

Da martedì è in libreria Figli di nessuno, il libro sulla storia di Pasquale Guadagno scritto con la giornalista Francesca Barra, edito da Rizzoli. Il memoir è schietto e potente. Non è solo una testimonianza personale, ma un grido di denuncia contro il silenzio che circonda la violenza di genere.
Guadagno ha ventotto anni, vive a Udine ed è proprietario di un bar. Con la sorella Annamaria ha costituito l’associazione Anime invisibili per aiutare chi, come loro, è orfano di femminicidio e le donne che subiscono violenza in ambito familiare. Il libro sarà presentato a Udine il 17 febbraio, alle 18.30 alla libreria Moderna, da Guadagno e Barra.
La scheda

Il 25 aprile del 2010 Salvatore Guadagno ha ucciso sua moglie, Carmela Cerillo, la madre dei suoi due figli. Ha strangolato la donna che diceva di amare. È stato condannato a diciotto anni di reclusione con rito abbreviato, ridotti a tredici anni e mezzo per buona condotta. L’ha uccisa per gelosia. Carmela aveva trentasette anni, è morta giovane. «Cosa propria» la chiamava il marito. Il figlio Pasquale, allora quattordicenne, si ritrova a portare un doppio fardello: quello di figlio della vittima e del carnefice.
Diviso tra l’odio per l’uomo violento e assassino e l’attrazione per il padre, tra il biasimo e il desiderio di redimerlo per avere di nuovo un pezzettino di famiglia, vive in bilico tra il passato di cui non può liberarsi e il presente che vorrebbe costruire. Ma questa non è soltanto la storia della sua depressione, è soprattutto il racconto di come, con la vicinanza della sorella maggiore Annamaria, sia riuscito a diventare l’uomo che è oggi: consapevole di sé, coraggioso, resiliente.
E vuole essere anche una testimonianza collettiva, perché l’abuso e la violenza di genere si consumano nel silenzio, nell’omertà – delle persone, delle istituzioni, dello Stato – e nella solitudine delle vittime, che continuano a pagare il prezzo di una profonda carenza nell’educazione sentimentale e di una cultura ancora permeata di pregiudizi. Prenderne atto vorrebbe dire mettere in discussione un intero modo di vivere.
Quindici anni dopo Pasquale Guadagno, in un memoir schietto che non cerca pietà né perdono, con l’aiuto della giornalista Francesca Barra, che da tanti anni scrive e racconta storie di ingiustizia legateai diritti civili, fa i conti con il lutto che l’ha cambiato per sempre e che ancora lo definisce.
L’abstract
Capitolo: La morte è arrivata piano. Molti anni prima.
Un’estate di molti anni fa eravamo in Croazia, io ero ancora bambino, mia sorella appena ragazzina.
Avevo sette anni, mi piaceva quell’acqua cristallina, la costa dorata, le città di pietra. Piacevano anche ai miei genitori. Ricordo il pranzo in un ristorante affacciato su una piazzetta. La cameriera ci ha portato il conto e mio padre ha iniziato a prendermi in giro, sentendosi simpatico. Ripeteva «Paga lui», indicandomi. Ha insistito e io non sapevo che fare. “Sono solo un bambino, i soldi non li ho” pensavo dentro di me.
Non dovrebbe saperlo, mio padre?
Magari è un gioco che fanno altri genitori, ma io davanti alla cameriera mi vergognavo da morire. Così all’ennesima frase di papà ho ribaltato il piattino con il conto e sono scappato via di corsa. Lui si è alzato di scatto e mi è venuto dietro, rincorrendomi nella piazza del paesino di cui non so più il nome, finito in qualche angolo oscuro della mia memoria.
Ero terrorizzato, sapevo che me l’avrebbe fatta pagare. Così correvo, correvo come se qualcuno mi stesse urlando di mettermi in salvo, come nel film Forrest Gump. Poi con la coda dell’occhio ho visto che aveva iniziato a correre anche mia madre, per proteggermi da quel pericolo.
Sono andato nella sua direzione, sapevo che mi avrebbe difeso. Lo sapeva anche mio padre, che si è arreso e mi ha lasciato in pace. Ma il toro nell’arena stava solo prendendo le misure per rimandare la sua infilzata. Mamma ne era consapevole.
Per non farmi picchiare, perché lui era capace di alzarsi e menarmi in piena notte, spezzando il mio sogno con un incubo, quella volta mia madre ha preso una coperta e ha dormito a terra fuori dalla mia porta, per vigilare e proteggermi. Se mio padre avesse provato a mettermi le mani addosso, lei l’avrebbe fermato.
Era così, la mia famiglia. Eppure paradossalmente c’era anche altro, gesti che suonavano romantici, che ti fanno dire “queste persone sono legate per davvero”. Come il tatuaggio. I miei genitori se l’erano fatto insieme, con le iniziali dei nostri nomi. La C di Carmela, la S di Salvatore, la A di Annamaria e la P di Pasquale. Rappresentava l’unione della nostra famiglia. Come se un tatuaggio potesse bastare.
Invece, nonostante il tatuaggio, mia madre è stata uccisa nel cucinotto di casa, una domenica come tante altre.
Era il 25 aprile 2010 e aveva trentasette anni.
È morta giovane. Per sempre sarà giovane, mia madre.
Si è sposata a diciotto anni e non ha visto molto del mondo. Era incinta, quando si è trasferita in Friuli, seguendo mio padre che a Napoli non trovava lavoro. Mia zia Gabriella, sorella di papà, era già a Udine da qualche mese, perché tramite un’amica aveva trovato impiego come cameriera. Mio padre non ha vissuto più esperienze di lei, comunque. Non che abbia grande importanza: tutto il bene, il male, il bello, il buio, non c’è bisogno di andarlo a cercare lontano. C’è nelle piccole cose, quando metti il naso fuori casa, in un’aula a scuola, in un film, nella musica, nel primo sorriso che fa un figlio appena nato. Quando te lo trovi tra le braccia e smetti di essere l’unico essere umano a cui dover dare conto perché ne hai uno che dipende da te. Per quanto limitato, il mondo di mio padre e mia madre conteneva tutto, ogni possibilità. E mio padre ha scelto.
Così, dopo aver visto la partita di calcio con suo cognato stravaccato sul divano di casa, commentando un fuori gioco – dimentico tanti dettagli della mia storia, ma altri invece li ho ancora chiari in testa: quella domenica la Juventus giocava contro il Bari – mio padre ha compiuto quel gesto di una crudeltà tale da farlo passare alla storia. Ha stordito mia madre sbattendole la testa contro il frigorifero. Poi, mentre lei era ancora vigile, anche se sfiancata e terrorizzata, l’ha strangolata stringendole le mani al collo per più di nove minuti, lasciandola morta a terra.
I soccorritori, chiamati da lui, l’hanno trovata ancora lì, con la testa ruotata a sinistra. Il tappeto sul quale è stata uccisa era macchiato dei liquidi che ha perso mentre moriva, scivolati fuori dalla bocca. Si erano mescolati alle briciole e a quelle parole che non le avrei sentito dire mai più.
Quel tappeto sembra la metafora della mia vita. È stato lì per lungo tempo, nella più totale indifferenza, poi è stato testimone di un crimine ed è stato eliminato, portato via, arrotolato e messo da parte da chi ha ripulito casa, ovvero mia zia Gabriella e mia nonna. Nessuno lo aveva mai particolarmente notato, prima che ci morisse mia madre: nessuno ci ha dato troppa importanza dopo, considerandolo con le sue scomode macchie qualcosa da non avere sotto gli occhi. Scomodo, inopportuno, da nascondere.
Quindi chi è rimasto si è preoccupato di farlo sparire, come se niente fosse.
Quando il silenzio contiene urla o dolore, meglio comunque tapparsi le orecchie, voltarsi dall’altra parte, ignorare. Meglio non parlarne. Meglio pulire, non farci i conti.
Anche la mia famiglia era così.
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