Reato di femminicidio, la legge è debole e non protegge le donne

Il rimedio proposto dal governo a un’emergenza reale si rivela incongruo.All’inasprimento non corrisponde la deterrenza. Più efficaci interventi culturali ed educativi

Bruno Cherchi
Scarpe rosse, simbolo della lotta contro la violenza sulle donne
Scarpe rosse, simbolo della lotta contro la violenza sulle donne

Un disegno di legge approvato il 7 marzo dal Consiglio dei ministri prevede l’introduzione nel codice penale del reato di femminicidio. Il provvedimento è stato presentato come «risultato epocale» dal ministro della Giustizia e come «una novità dirompente» da quello della Famiglia.

Secondo il rapporto del Servizio Analisi Criminali, Dipartimento di Pubblica sicurezza, del ministero dell’Interno, 113 donne sono state uccise nel 2024 e di queste 99 sono state vittime di violenza familiare o comunque all’interno di un rapporto affettivo, 61 quelle uccise per mano del partner o dell’ex partner. Questi dati evidenziano come non vi sia alcun dubbio che le condotte omicidiarie che colpiscono le donne in generale, e nell’ambito familiare affettivo in particolare, siano davvero un fenomeno di significativo rilievo sociale e quindi impongano grande attenzione da parte del legislatore.

Il femminicidio diventa un reato specifico: sarà punibile con l’ergastolo
La redazione
Scarpe rosse contro la violenza sulle donne

Da tempo la piaga dei femminicidi costituisce un problema oggetto di interventi che sono stati suggeriti, anche in sede internazionale, dalla Convenzione di Istanbul recepita in Italia con legge dal 2013, ove si evidenzia la necessità che vengano predisposte efficaci misure di prevenzione e di assistenza alle donne che hanno subito violenza, senza però alcun riferimento alla creazione del reato di femminicidio.

Nessun Paese europeo ha infatti pensato di introdurre una simile fattispecie, diversamente dalla grande parte dei Paesi del Sud America che hanno, invece, sanzionato espressamente il femminicidio. L’Italia aveva peraltro già dato parziale attuazione alla Convenzione con la normativa nota come “codice rosso”, prevedendo strumenti penali e processuali che, al momento, non solo hanno evidenziato luci e ombre, ma soprattutto non sembra abbiano raggiunto i risultati di tutela immaginati dal legislatore.

Resta da vedere se il disegno di legge del governo che ha creato il reato di femminicidio, e che ora passerà all’esame del Parlamento, colga nel segno o, come è stato notato, si tratti di un esempio di populismo penale, e quindi di un provvedimento adottato per suscitare un impatto emotivo nell’opinione pubblica, pur senza avere una reale rilevanza pratica.

Resta da vedere se si tratti di un esempio di populismo penale,  di un provvedimento adottato per suscitare  impatto emotivo nell’opinione pubblica

La norma di cui si propone l’introduzione punirebbe con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità».

Diversi i problemi evidenziati da questa ipotetica fattispecie. Innanzitutto, osserviamo che il codice penale già prevede che per l’omicidio (art. 575 c.p.) aggravato (se il fatto è commesso contro il coniuge, anche separato, contro l’altra parte di un’unione civile o contro una persona stabilmente convivente con il colpevole o a esso legata da relazione affettiva, art 577 c.p.) il colpevole venga condannato all’ergastolo. Non sembra che la previsione di queste pene, obiettivamente elevate, abbiano conseguito l’obiettivo di deterrenza che il legislatore ritiene connaturale alla gravità della sanzione come si trae dal significativo numero di donne uccise anche solo nel corso del 2024.

La presa d’atto degli scarsi risultati finora raggiunti dalle previsioni di punizione penale, nonostante le novità anche processuali del cosiddetto codice rosso, suggeriscono importanti dubbi circa l’efficacia del nuovo reato a fermare gli omicidi delle donne. L’impiego della repressione penale a fini di prevenzione è da tempo criticato da coloro che si occupano professionalmente di questi temi che, in diverse occasioni, hanno evidenziato come la continua previsione di nuove ipotesi di reato e l’innalzamento delle pene non hanno mai portato alcuna effettiva prevenzione e una reale diminuzione degli eventi.

La delega alla giustizia penale appare spesso un comodo espediente politico di immediato consenso sociale per l’impatto mediatico che provoca, senza alcun effetto comprimente i fatti incriminati. Appare in tal senso significativa la circostanza che il disegno di legge sia stato presentato proprio il giorno precedente la Festa della Donna. Ancora una volta nessuna attenzione viene posta, nel proliferare di nuove ipotesi di reato, alle conseguenze sulla già ingolfata macchina della giustizia, sempre privata dei necessari mezzi tecnologici e delle risorse umane e sempre più in difficoltà a definire in tempi ragionevoli i processi.

Insieme a queste osservazioni di metodo sulla limitata efficacia della repressione penale, non si possono ignorare diverse incongruenze emergenti dall’analisi della prevista norma sul femminicidio. Risulta evidente l’indeterminatezza della fattispecie, che non precisa cosa debba intendersi «reprimere la personalità della donna» o il generico riferimento alla «finalità di reprimere diritti o libertà».

Una simile previsione risulta in contrasto con la necessità che i comportamenti illeciti siano preventivamente determinati in modo puntuale così come prescrive non solo la nostra Costituzione, ma anche la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, vincolante anche per il nostro Paese.

Definizioni normative non puntuali consentono al giudice ampi spazi interpretativi con delega a riempirli con valutazioni che necessariamente saranno stimolate dalle personali visioni etiche e sociali dell’interprete, con buona pace della chiarezza e la prevedibilità del fatto che l’imputato è chiamato a rispondere.

La previsione normativa della nuova fattispecie suggerisce inoltre un dubbio di contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, in quanto, in modo del tutto irragionevole, l’omicidio di un uomo non sarebbe punito anche qualora le ipotesi di discriminazione, odio o repressione fossero caratterizzati dal fatto di essere maschio.

Dubbi di reale efficacia degli strumenti penali, ipotesi di reato già punite, inappropriata definizione del fatto punibile fanno pensare a un mero manifesto diretto a stimolare facile consenso piuttosto che uno strumento per il raggiungimento degli effetti pubblicamente indicati.

Forse i condivisibili obiettivi di tutela sarebbero meglio raggiungibili con interventi culturali, di educazione e di supporto, ogni qual volta si evidenzino inaccettabili visioni di possesso e di mancata accettazione di diversità emozionali e personali da tempo presenti nell’evoluzione della nostra società. Per la tutela delle donne, le norme già vigenti sono sufficienti e non appaiono necessari impropri spot, ma interventi di ben più ampia profondità, con il supporto di istituzioni e finanze pubbliche. 

Riproduzione riservata © il Nord Est