Solo una responsabilità collettiva può distruggere la piramide della violenza

La piramide che ha nelle sue cime più estreme l’uccisione, lo stupro, si regge su una serie di atteggiamenti assolutamente quotidiani, dalla pacca sul sedere al fischio per strada

Un fiume di persone ha riempito il cortile del dipartimento di Ingegneria che frequentava Giulia Cecchettin. A volte si dà per scontata la partecipazione, in particolare in momenti come questi. Eppure là si percepiva qualcosa di infinitamente più importante della sola vicinanza: la responsabilità collettiva.

Nemmeno questo è scontato: quando succede che un uomo ammazza una donna, che la violenta, a tutto siamo abituati tranne che a leggere di responsabilità. Si parla di mostri che hanno agito mossi da qualche istinto inspiegabile, che rassicurano nell’essere percepiti come lontani. Non siamo abituati a chiederci perché i femminicidi accadano. O meglio, molte di noi se lo sono domandato, ma non siamo abituate ad ottenere un’analisi del fenomeno soddisfacente, non dalla politica o dai luoghi di istruzione.

La risposta del presidio di cui parlavo sopra è che una responsabilità va individuata: non basta più - non è mai bastato – condannare l’assassino se non facciamo nulla per evitare che dopodomani un’altra donna venga uccisa. La piramide che ha nelle sue cime più estreme l’uccisione, lo stupro, si regge su una serie di atteggiamenti assolutamente quotidiani che ci hanno abituate a giustificare. Dalla pacca sul sedere al fischio per strada, dal non accettare un rifiuto al “non puoi uscire vestita così”.

La piramide della violenza

Commemorazione all' Universita' dei Rizzi, Udine © Foto Petrussi
Commemorazione all' Universita' dei Rizzi, Udine © Foto Petrussi

E la piramide della violenza si abbatte solo distruggendone le fondamenta. Ieri forse per la prima volta ho visto un fenomeno nuovo. C’erano i volti delle mie compagne di università, molte rigate di lacrime, tutte con lo sguardo di chi sa perfettamente di cosa stavamo parlando quando elencavamo le forme di violenza, perché tutte le avevamo vissute. Accanto a loro però c’erano anche i ragazzi, tanti. Per la prima volta forse ho visto accendersi una consapevolezza che richiede di fare i conti con le parole e le azioni nostre, non quelle del “mostro”. Magari bastasse questo, però.

Prendere coscienza del fatto che ogni aspetto della nostra società è permeato da una cultura che tollera il possesso e la violenza implica mettere in discussione anche i privilegi che il sistema patriarcale porta con sé. Serve mettersi all’ascolto, e ieri ne ho visto tanto, che deve continuare. Anche sperare che ogni singola persona – ogni singolo uomo - in autonomia si interroghi sulle radici della violenza non è sufficiente.

L’educazione al consenso

L’educazione a cos’è il consenso, a cos’è l’affettività, deve partire dalle scuole e attraversare ogni ciclo di istruzione fino all’università. In questo modo possiamo agire sulle generazioni future, ma non su quelle precedenti. Ecco perché è una vergogna che vengano definanziati i Centri Antiviolenza. In questi giorni ho letto spesso che si deve ripartire dai giovani. Tra di noi ci confrontiamo, probabilmente progrediremo come è sempre accaduto. Ma non delegate a noi anche il compito di educarvi e non rassegnatevi all’idea che per voi, adulti, nulla si possa più. Non defilatevi da quella responsabilità collettiva che ho visto ieri mattina. Se vogliamo che Giulia sia l’ultima davvero.

*presidente del Consiglio delle Studentesse e degli Studenti dell’Università di Padova

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