Prevenire la violenza di genere, Michela Marzano e la via dell’educazione

Dalla cultura del rispetto nelle scuole al ruolo delle famiglie, fino al pericolo dei social e agli stereotipi di genere: «L’urgenza è intervenire sulle radici della violenza»

Marco Ballico
La docente di Filosofia Michela Marzano al Teatro Verdi
La docente di Filosofia Michela Marzano al Teatro Verdi

​​Intervenire sulle parole sbagliate, a partire dalle battute che possono sembrare innocue, «ma sono in realtà molestie», prima che si traducano in violenza fisica.

Un percorso di prevenzione «che non può che iniziare nelle famiglie e nelle scuole», dice Michela Marzano, docente di Filosofia morale a Parigi, che su questi temi ha scritto tra l’altro “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa”, uscito la scorsa settimana nei tascabili Bur. Decisa, Marzano, nel sottolineare lo sgarbo del ministro Valditara nel giorno della presentazione della fondazione contro la violenza di genere, dedicata a Giulia Cecchettin, la studentessa padovana uccisa dall’ex fidanzato poco più di un anno fa. Un drammatico fenomeno senza interruzione.

Marzano, perché gli uomini continuano a uccidere le donne?

«Perché la questione non viene affrontata in maniera strutturale. La convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica è stata ratifica in Italia nel 2013. Il nostro Paese si è da allora impegnato a portare avanti una strategia complessa basata sulle tre “p”. Punire i colpevoli, proteggere le vittime, prevenire la violenza».

È mancata concretezza?

«Le leggi approvate si sono concentrate sulla punizione e su questo, pur persistendo i problemi delle sentenze, dell’applicazione della pena, della capacità di prenderla sul serio, si sono fatti passi avanti. Dal punto di vista della protezione, invece, solo passi indietro. Perché proteggere le vittime significa finanziare i centri antiviolenza. Al contrario, i fondi per questi centri vengono tagliati».

La terza “p”?

«Il ritardo più grave. Prevenire vuol dire educare ragazze e ragazzi all’affettività, fare cultura, organizzare incontri a scuola. Tutto questo non è stato fatto. Nel contempo, in una totale deresponsabilizzazione degli uomini, ci tocca sentire i rappresentanti politici che dicono che il patriarcato non c’è più e che la colpa delle violenze è degli immigrati illegali».

Cos’ha pensato quando ha sentito le parole del ministro Valditara?

«Che ancora una volta il ministro avrebbe potuto prepararsi meglio o almeno riflettere prima di parlare. Sono rimasta spiazzata. Un ministro della Repubblica che interviene con quei contenuti a pochi giorni dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, davanti al papà di Giulia Cecchettin, nell’occasione in cui nasce una fondazione a lei dedicata, dovrebbe evitare di scivolare nella retorica e nella polemica politica».

A dar man forte al ministro la premier Meloni e il collega Salvini.

«Dispiace che si faccia politica e ideologia sulla pelle delle donne che muoiono. Non era il momento perché il ministro intervenisse sull’immigrazione illegale, che è certamente un problema, ma non la causa dei femminicidi, posto che oltre sette su dieci accadono all’interno delle famiglie. Né era il caso di fare una tirata, completamente infondata, sul patriarcato. Nulla c’entra la definizione giuridica della famiglia. Si sta parlando della cultura dello stupro, vale a dire di tutti quegli stereotipi di genere che nutrono la violenza, che inizia come linguistica e diventa poi psicologica e infine fisica».

Il pericolo social?

«I social amplificano il peggio, ma non sono altro che lo specchio della società. Me ne accorgo quando scrivo un commento su queste tematiche. C’è sistematicamente quella banda di uomini che scrivono “ancora”, “basta”, “non se ne può più”».

Sono quegli uomini che minimizzano gesti, fischi, avance?

«All’interno della cultura dello stupro c’è il legame tra la battuta sessista e il femminicidio. Non perché ovviamente siano sullo stesso piano, ma perché una cosa implica il passaggio successivo. Si comincia con la spiritosaggine, si ride, si giustifica che la volta dopo la mano scivoli sul corpo della donna e che si possa immaginare il consenso per un eventuale rapporto. Nel momento in cui ci sono le violenze sessuali, pian piano le donne vengono considerate oggetto di possesso e si trovano le mani addosso quando se ne vogliono andare».

Il ruolo delle famiglie e della scuola?

«Fondamentale. Se da piccolo osservo mio padre che risponde male a mia madre, comincio a pensare che quello sia il modo in cui ci si comporta. Le famiglie ne devono essere consapevoli. La scuola è il luogo dell’educazione e della cultura, ma vanno formati pure gli insegnanti. Gesti e parole hanno sempre un impatto».

Che cosa potrà fare la fondazione dedicata a Giulia Cecchettin?

«Sensibilizzare, informare, educare. Portando il nome di Giulia, è anche un modo per renderle omaggio e non dimenticare la sua storia».

Come aiutare le donne a riconoscere i segnali di abuso?

«Spiegando che l’amore è l’esatto contrario del possesso e della gelosia. Un marito o un compagno che mi ama mi permette di essere libera, di vivere indipendentemente da lui. La violenza inizia dicendomi che non ho il diritto di guardare un’altra persona o impedendomi di mettere la minigonna».

E cosa dire a un uomo che vorrebbe essere parte del cambiamento?

«Intanto ringraziarlo: abbiamo bisogno degli uomini in questo processo. Per il resto, il consiglio è lo stesso: informiamoci, educhiamoci, parliamone, impariamo ad ascoltare e rispettare, trasmettiamolo alle nuove generazioni».

 

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