Il coraggio di denunciare: tre storie di riscatto
Tre donne, madri, mogli, compagne. Hanno avuto il coraggio di uscire da un tunnel senza uscita, quello della violenza da parte di chi diceva loro di amarle, per poter rinascere, per se stesse e per i propri figli. Ecco i loro racconti, tra paura e speranza
Tre donne, tre storie di rinascita. Dal buio della violenza, dalla paura, al coraggio di denunciare, di andarsene per riappropriarsi della propria vita, per se stesse, per i figli. Ecco le testimonianze raccolte nelle tre case rifugio - Viola, Adele ed Elena - per donne vittime di violenza che a Padova gestisce il Gruppo Polis.
«Adesso sono libera e non ho più paura. Ragazze, denunciate»
«Oggi mi sento più libera di quando sono entrata. Mi sento più espressiva, più aperta, più serena. Ho riscoperto nuovamente il mio carattere che era morto perché non ero libera di ridere per la tristezza e il dolore che avevo dentro».
Ha avuto la forza e il coraggio di lasciarsi alle spalle quella paura che annebbia la stessa consapevolezza di chi siamo, dimenticata quando la priorità non è più vivere ma sopravvivere alla barbarie di un uomo. A raccontarsi è Lucia, nome di fantasia di una delle ospiti delle tre case rifugio - Viola, Adele ed Elena - per donne vittime di violenza che a Padova gestisce il Gruppo Polis.
Le strutture contano 18 posti in tutto, la prima ha inaugurato nel 2011. Il loro indirizzo è segreto e offrono un alloggio protetto, oltre a un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo e abitativo delle ospiti, offrendo un nido anche ai loro bambini e bambine.
«Casa Elena ha aperto nel 2024 a fronte di un incremento di richieste tra la fine del 2023 e l’inizio dell’anno nuovo», spiega la referente delle sedi nel Padovano, Mariasole Rizzi.
Nel 2023 le segnalazioni ricevute per nuovi ingressi dai servizi sociali e centro anti-violenza sono state 15, nei primi sei mesi del 2024, sono state 14 e, dal 2021 ad oggi, sono state 21 le donne ammesse, e 16 i minori da 1 a 14 anni.
«Rivolgetevi al centro anti-violenza dove possono darvi davvero supporto e spiegazioni, e dove vi possono aiutare a fare i passi successivi», è l’appello che Lucia si sente di condividere, a percorso concluso, rivolgendosi a chi è ancora preda di un incubo: «Abbiate coraggio, è dura uscire di casa ma quando si è fuori il mondo cambia, il vostro mondo cambia», incalza. La permanenza in protezione solitamente ha un respiro medio-lungo, che non supera l’anno e mezzo, perché il mandato che questo tetto sicuro si prefigge è transitorio.
Fuori, oltre la porta d’ingresso, c’è la vita. «Là mi sono sentita finalmente libera di uscire, di camminare e di parlare con chi volessi. Ho sentito scivolare via la paura che mi attanagliava nel vedere la sua macchina parcheggiare di fronte casa, nel sentire la porta che si apriva quando tornava a casa.
Sapevo che non lo avrei più incontrato e nel momento in cui sono entrata mi sono sentita subito sollevata. Sapevo di aver preso la decisione giusta», rivela.
«Chiedete aiuto, non è mai tardi per rinascere»
«Se fossi una pittrice, l’immagine che userei per rappresentare il progetto di Casa Adele è un seme, di qualsiasi fiore. Io sono arrivata che ero un seme insieme ai miei bambini, ma con il passare del tempo, piano piano, sono fiorita, sbocciata».
È la voce di una mamma, prima ancora che di una donna, quella di Irene, altro nome d’invenzione che racchiude un’anonima testimonianza dalla casa che celebra la madre costituente Adele Bei, già nota sindacalista che dedicò l’intera esistenza alla conquista dei diritti delle donne.
«Quando sono arrivata mi sentivo molto arrabbiata, perché non ero a casa mia e mi mancava la routine che avevo prima. Ero in mezzo a tante persone nuove, mi sentivo molto spesso in ansia, ma rimanevo forte per i miei bambini».
Impossibile fare una media sulla tipologia di donne che arrivano nelle residenze.
«Ci rendiamo solo e sempre conto, dalle singole storie, che la violenza viene vissuta a qualsiasi età, dalle ventenni fino a chi di anni ne ha quasi settanta, da chi è madre o no, ma anche che se ne può uscire a qualsiasi età», sottolinea la referente del servizio padovano, Mariasole Rizzi (Gruppo Polis).
Irene parla di «difficoltà», di «crescita» e di «rinascita» come tappe che hanno scandito il suo rifiorire. Un cammino solcato tenendo stretti per mano i suoi figli. Un passo alla volta, non senza dubbi o timori, né senza maturare strada facendo una drammatica tesi: «Se una donna subisce violenza una volta, non sarà mai l’ultima. Il marito o fidanzato che lo fa una volta lo farà sempre», confessa a chi vive dinamiche analoghe a quelle che, oggi, riferisce al suo passato. E aggiunge: «Non crediamo alla frase “scusa, è l’ultima”. Il messaggio che voglio lasciare è di non perdonare atti del genere e di chiedere aiuto. Anche se è difficile».
Dalla convivenza tutta femminile possono nascere amicizie, in punta di piedi. «Rapporti che, tra le mura domestiche condivise, si traducono in spirito di squadra e solidarietà anche nell’aiutarsi a gestire i bimbi», racconta Rizzi, per cui una rete di mutuo soccorso su cui poi poter contare una volta fuori vale tutto.
«Per me e per i miei figli è stata l’inizio di una seconda vita», riferisce della sua esperienza un’altra mamma ospitata. «Sono entrata con nulla in tasca. La mia più grande paura era quella di perdere i figli. Voi non dovete averla: se siete donne che vogliono cambiare la loro vita e quella dei propri figli in meglio, la strada giusta è chiedere aiuto».
«Mi sono misurata con altre vittime: ora ho un nuovo futuro»
«Ho lasciato la mia casa e non sapevo con chi avrei abitato: dopo mi sono abituata e sono stata felice di aver incontrato e condiviso questo percorso con altre brave donne». Ansia e paura. Sono questi i sentimenti che Beatrice (così è ribattezzata la terza testimone che si racconta sotto anonimato) ha saputo affrontare per scrivere, da protagonista, le pagine della sua nuova vita.
«Fiducia, bontà e sicurezza» è quanto le ha lasciato in dote il viaggio concluso con una luce rinnovata. «Il progetto è stato lungo e faticoso, tante attese, cose sospese, domande senza risposte sicure», riporta, e come metafora per il suo exploit le viene in mente una sola nitida immagine: una stazione ferroviaria. «Io che prendo un treno dove lascio il mio passato e parto verso il mio nuovo futuro».
Una vacanza che nessuna donna, giovane o meno giovane, dovrebbe essere costretta a prendere, con un biglietto di sola andata, dalla sua stessa quotidianità, eppure necessaria a Beatrice come l’aria.
«La fatica che sento ancora è l’instabilità della mia situazione», valuta la donna a fine corsa, dando fiato alle troppe Beatrice che ancora devono montare su quel treno che lei ha avuto l’amor proprio di prendere.
«Ora sto per uscire e non ho un posto definitivo dove starò, però ho fiducia che questo cambi!», continua. «Rispetto al mio ingresso in Casa, oggi non ho più paura, mi si è accesa la speranza perché mi sono resa conto che è stato possibile liberarmi dalla violenza».
Il rifugio, seppur temporaneo, si è rivelato per lei un posto protetto e tranquillo dove stare, «un luogo sicuro per me e per i miei figli», dice. Soprattutto, Beatrice lì non era da sola, e all’altro ha imparato a riaprirsi.
«Ho avuto l’opportunità di essere aiutata da tante persone con cui ho sempre avuto la possibilità di confrontarmi», riporta con una fiducia ritrovata, in sé ma anche nella relazione.
Gli itinerari delle donne vittime di violenza curati da operatrici e operatori delle cooperative di Gruppo Polis sono personalizzati, cuciti sul carattere, la sensibilità e le esigenze di ciascuna. Li veicolano gesti e parole. Gli stessi da cui vanno sradicati, con gentilezza, stereotipi e ruoli di genere.
Riproduzione riservata © il Nord Est