La storia della Transalpina, la piazza divisa tra Italia e Slovenia, Gorizia e Nova Gorica
Il simbolo della cortina di ferro al centro dell’inaugurazione della prima Capitale europea della cultura transfrontaliera: ci sono voluti tre lustri perché anche l’ultimo muro d’Europa cadesse
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Si è dovuto aspettare il terzo millennio perché l’ultimo muro d’Europa cadesse. Solo l’ingresso in Europa della Slovenia, nel 2004, ha visto smantellare la porzione di muro che dal 1947 tagliava in due piazza Transalpina. Il luogo che sabato 8 febbraio è stato epicentro dell’apertura dell’anno della cultura europea, era rimasto ancora per tre lustri, dopo la caduta del muro di Berlino del 1989, l’unico monumento di pietra della Guerra Fredda, estremo residuo di quella che Churchill aveva battezzato la “cortina di ferro”.
È un piccolo ma denso pezzo di storia, la Bohinjska Proga, che ha preso il nome dalla ferrovia transalpina tra Jesenice, al confine con l’Austria, e Trieste, solennemente inaugurata nel 1906 dall’arciduca Francesco Ferdinando: uno dei tanti significativi investimenti degli Asburgo nella città giuliana, loro sbocco sul mare.
Vita breve, peraltro: con il crollo dell’impero dopo la Grande Guerra, il suo ruolo era diventato marginale. Per tornare in primo piano, ma come segno di divisione non più di collegamento, dopo la conclusione della seconda: quando il trattato di Parigi del 1947 aveva tracciato un confine secco tra Italia e Jugoslavia, tagliando in due Gorizia proprio attraverso quella storica piazza.
Lì c’era il filo spinato; e lì sarebbe sorto un piccolo muro di Berlino: una recinzione su una base di calcestruzzo larga mezzo metro, sormontata da una ringhiera di un metro e mezzo, costruita lungo una linea di confine interna alla città, che separava la Gorizia italiana dai quartieri periferici e dalla stazione ferroviaria di piazza della Transalpina, annessi dalla Jugoslavia di Tito a fine guerra; mentre dal lato opposto sorgeva Nova Gorica, speculare e contrapposta. E proprio la piazza, durante la Guerra Fredda, era diventata il simbolo della separazione delle due Europe, quella occidentale e quella comunista.
A un certo punto, per ribadirne l’appartenenza politica, sul frontone del palazzo della stazione era stata affissa una grande stella rossa con la scritta “Mi gradimo socijalizam”, noi costruiamo il socialismo; rimossa soltanto dopo la proclamazione dell’indipendenza slovena nel 1991.
Nei decenni, ci sono stati momenti di alta tensione. Come a novembre del 1953, quando un comizio indetto da Tito sulla questione di una Trieste ancora contesa, a pochi chilometri dal confine, per rivendicare la famosa zona B della città giuliana, indusse l’allora governo Pella a schierare le truppe italiane a ridosso di Gorizia. O come il 22 novembre 1989, quando Gianfranco Fini, all’epoca segretario del Movimento Sociale, organizzò una manifestazione sempre a Gorizia con tanto di piccone per demolire il muro: stoppato dopo una breve colluttazione dalle forze dell’ordine.
D’altra parte, il filo spinato che era l’emblema della cortina di ferro stesa tra il Baltico e l’Adriatico ha resistito a Gorizia fino al 1954, per essere poi comunque sostituito dalla recinzione sopra descritta.
E anche dopo il 2004, quando il piccolo muro è stato abbattuto, fino al 22 dicembre 2007 per passare tra Italia e Slovenia bisognava comunque esibire il passaporto. I muri sono duri a morire.
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