A come ascolto: il coraggio di riconoscersi e di rimanere in silenzio
Si parla di “diversità” e la si celebra come ricchezza, ma ciò che è diverso costa fatica. Ci vuole empatia, un bene che di questi tempi circola meno di un grande latitante
Mia nonna ripeteva spesso che «Di un bel tacer non fu mai scritto». Non che allora capissi l’antico proverbio, anche perché da pubescenti ci è molto difficile concepire di stare in silenzio.
Il silenzio, appunto: paradossalmente è il primo passo per riuscire ad ascoltare. «Si tace per ascoltare», troviamo scritto in un libro di Edmond Jabès. Che cosa intendiamo per silenzio? Molto semplicemente: riuscire ad ascoltarsi. E se non riusciamo a farlo con noi stessi, figuriamoci con gli altri.
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Oggi è fin troppo facile arrivare a questa deduzione, avvantaggiati come siamo dall’esperienza dei social. È molto comodo il mondo social, ti permette di parlare, se ne hai voglia, ma soprattutto ti permette di non ascoltare. I social sono come quegli abiti che vengono chiamati double face, doppia faccia.
Per un verso hai la sensazione di partecipare a una socialità che non esiste: basta dare un’occhiata ai vari commenti di un post per rendersi conto che chi scrive, nella maggior parte dei casi, non risponde all’autore di un testo, vuole per lo più affermare un’opinione, rigorosamente vissuta come verità. Per altro verso, sebbene si riceva l’impressione di “partecipare”, la socializzazione a distanza è anche un alibi straordinario per non avvicinarsi all’altro, per custodire il proprio isolamento. E l’isolamento assomiglia non poco alla comodità. In fondo è comodissimo non essere contraddetti o disturbati da ciò che potrebbe presentarsi dissonante da noi.
Si fa un gran parlare di “diversità” e la si celebra come ricchezza, ma ciò che è diverso costa una gran fatica. A iniziare dall’ascolto. L’ascolto è faticoso. Molto faticoso. Anche perché, come si diceva qualche riga fa, devi aver già fatto i conti con te stesso, devi saperti ascoltare. Solo dopo puoi davvero “prestare orecchio”.
Perché appunto, l’orecchio è condiviso, ma l’ascolto non implica soltanto l’udito. Ci vuole qualcosa di più, ci vuole empatia, un bene che di questi tempi circola meno di un grande latitante. E quasi nessuno ha voglia di mettere in azione questa apertura, questa sfera dell’intelligenza emotiva.
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«L’ascolto esige l’abbandono di sé», dice ancora Jabès. Nella maggior parte dei casi si ascolta senza ascoltare, ci si guarda bene dall’approfondire una richiesta di condivisione. Eppure solo se riusciamo a instaurare una corrispondenza, una apertura all’altro – il che significa anche contenere i propri pregiudizi e depotenziare le proprie certezze – riusciamo ad ascoltare davvero. Di fatto pare che l’amore finisca dove cessa l’ascolto.
La prima causa di divorzio?
La mancanza d’impegno. Contrariamente a quanto si immagina, l’infedeltà viene ben dopo. Nell’epoca dell’egodivismo, è piuttosto difficile incontrare individui che non siano concentrati a “sentire” (non ascoltare) se stessi. Ma il problema è a monte. Il problema è proprio quello di sapersi ascoltare/guardare, dovrebbero insegnarlo alle scuole elementari, invece di raccontare che il mondo è bello e buono.
Sapersi ascoltare richiede il coraggio di riconoscere i propri limiti, la falsa coscienza, la disonestà intellettuale, i piccoli mostri che ci abitano, l’ipocrisia che pratichiamo prima di tutto nei nostri confronti. Nessuno però ha voglia di mettere un dito nella piaga e spingere molto forte. E ascoltare se stessi è mettere il dito in quella specie di piaga che rischia di restituirci un’immagine che non ci piace. Meglio esibire la nostra integrità in Facebook, lì dove si parla inascoltati, dove il silenzio fa rumore, dove la nostra falsa immagine sembra assecondata ma solo perché è ben distante da tutti.
Da noi per primi.
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