C come campione: Sinner e la fragile magia di chi guida il gruppo

Dalle leggende della boxe al tennis che ora emoziona gli italiani. Ma i vincenti sanno di dover fare i conti con la transitorietà e con la lezione di Shakespeare

Dario Cresto DinaDario Cresto Dina

Nella simbologia delle immagini archetipiche il campione, e quindi la parola che lo definisce, è spesso identificato come un re e a sua volta la testa incoronata viene paragonata al Sole. Anche in questo caso l’uomo è stato preceduto dalla natura, basta pensare alle corone gialle al centro dei fiori, alla criniera del leone, ai vivaci piumaggi che incoronano numerosi uccelli e alle corna maestose portate da alcuni animali.

Il campione si distingue dalla massa, primeggia nella società prima che nello sport. E’ il leader, il capobranco, colui che ci guida. Non un eroe, per la carità risparmiamoci questo superlativo che in tempi dominati dalla retorica viene dispensato con troppa leggerezza. Poi, ognuno di noi ha i suoi campioni non per forza investiti dalle stimmate della gloria. La corona, sostenevano gli antichi, esalta soprattutto colui che si conserva modesto.

Mio padre non credeva nel calcio. Non c’era una ragione particolare. Non ci credeva e basta, la sua avversione si manifestava come un prurito che ti coglie all’improvviso in mezzo alla schiena proprio nel punto che non riesci a raggiungere neppure con uno slancio da contorsionista. Allora si diceva questa roba mi fa venire l’orticaria.

A mio padre con il pallone venivano le bolle. Quando in tarda età fece la conoscenza di Massimo Moratti fu tentato per la prima volta di derogare ai suoi principi di fronte a un invito a San Siro per un Inter-Verona ma si scusò per il diniego inventandosi una forma passeggera di agorafobia, oltre ai menischi che se sollecitati gli facevano vedere il diavolo.

Il suo cuore sussultava solo quando due macchine di muscoli e nervi intorno ai cento chili ciascuna se le davano di santa ragione fino a spezzarsi su un quadrato delimitato dalle corde che raccoglievano nel sangue e nel sudore il dolore e il sollievo dei contendenti. Seguiva solo i pesi massimi, con rare e patriottiche incursioni nei mediomassimi.

Questa è gente che viene dalla strada, diceva, ripensando probabilmente a qualche sua rissa giovanile. Molti di loro in strada sarebbero tornati, una volta spentesi le luci della ribalta: zoppi, sciancati, rimbambiti, poveri e soli.

Era la boxe, bellezza.

La nobile arte della difesa, come la chiamò nel 1700 un allora famoso pugile inglese, James Figg. Erano uomini da onorare anche quando finivano al tappeto, meritavano l’omaggio di una sveglia nel cuore della notte, per vederli combattere dall’altra parte dell’oceano.

Durò quasi cinque anni, più o meno dai miei otto ai tredici. Stavamo in pigiama, io e papà, la coperta buttata sulle spalle, il volume del televisore in bianconero al minimo per non disturbare mia madre per la quale eravamo due pazzi sfegatati. Sfegatati, ci chiamava proprio così, e io non capivo che cosa significasse.

Cito alla rinfusa i miei Campioni. Joe Frazier, detto la locomotiva, il mio preferito, Carlos Monzon, Emile Griffith, Nino Benvenuti, George Foreman, Marvin Hagler, Joe Louis e sopra tutti lui, Cassius Clay, il più grande, la farfalla del ring, il mito che non riuscivamo a chiamare Muhammad Ali e che sapevamo c’entrava in qualche modo con la guerra del Vietnam, una faccenda per noi troppo lontana e complicata per poterla approfondire.

Sono stati loro i miei primi campioni, raccontati in radio e tv dalla voce inconfondibile e rugosa di Paolo Rosi. Ma nella mia memoria l’antenato del “campione” fu Primo Carnera, la montagna che cammina. La sua storia mi arrivò attraverso i fumetti e mi conquistò grazie al suo retrogusto di grottesco.

Campione del mondo dei pesi massimi nel 1933, un titolo difeso per un anno e annunciato personalmente con due telegrammi di ringraziamento, uno alla madre e l’altro a Mussolini. Friulano, alto quasi due metri, un allungo di 215 centimetri, 52 di scarpe, da mendicante bambino con i fratelli Secondo e Severino a fenomeno da baraccone (era detto la Torre di gorgonzola), passando attraverso il wrestling e addirittura una brillante carriera di attore che lo portò a recitare in una quindicina di film.

Girovago tra l’Italia, la Francia, l’America. Un’amicizia con Renato Rascel, il gigante e il piccoletto. Se ne andò il 29 giugno del 1967, a sessantuno anni nella sua Sequals il paese in cui era nato e dove aveva voluto tornare, abbandonando gli Stati Uniti, sei mesi prima di morire.

La vita può cambiare in un istante e il dolore, scrive Joan Didion, risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva. Molte di quelle dei pugili sono storie che finiscono male, che siano stati campioni o sparring partner. David Remnick, direttore del New Yorker, ne elenca alcune nella sua splendida biografia di Muhammad Ali, Il re del mondo: “Sam Langford all’inizio del secolo scorso, impedito dalla color line a concorrere al titolo morì cieco e senza un soldo; Joe Louis diventò un cocainomane perseguitato dal fisco; Bean Jack finì a lustrare scarpe al Fontainebleau Hotel di Las Vegas; Ike Williams fu spennato dalla malavita e in debito con il governo; Tony Due Tonnellate Galento per sbarcare il lunario fu costretto a lottare contro una piovra e a fare a pugni con un canguro”. Il grande Sonny Liston disse una volta: un giorno scriveranno un blues apposta per i pugili, sarà un pezzo lento per chitarra, tromba con sordina e campana.

Anche Lucio Dalla, Paolo Conte e Francesco De Gregori, Gianna Nannini e Ligabue hanno cantato i loro campioni, ma oggi la velocità del mondo indebolisce il peso delle storie, l’ultima vissuta al rallentatore e ancora integra è quella del Mondiale di calcio vinto nell’estate del 1982 in Spagna dagli azzurri di Bearzot e Pertini. Cartoline già un po’ seppiate che nutrono e confortano appena la parte più dolce della nostra memoria. Viviamo nell’epoca degli highlights, in due minuti e 38 secondi si può sintetizzare qualsiasi avvenimento.

Il 2024 è stato per l’Italia l’anno dei Campioni. Un bilancio storico, mai accaduto prima. Jannik Sinner ha scalato l’intera classifica del tennis, Matteo Berrettini è stato decisivo nella conquista della Coppa Davis e per credere di nuovo in sé stesso, Lorenzo Musetti è tornato dalle Olimpiadi di Parigi con al collo una medaglia di bronzo.

Le ragazze di Tatiana Garbin hanno trionfato nella Billie Jean King Cup e le amiche geniali Sara Errani e Jasmine Paolini con l’oro dei Giochi hanno firmato una stagione esaltante di un doppio che era nato quasi per scherzo e simpatia. Non è stato solo tennis.

Come dimenticare la pallavolo femminile di Julio Velasco, le medaglie del nuoto, dell’atletica e della vela, le campionesse dello sci, nel calcio il successo europeo dell’Atalanta di Gasperini, un inedito. Sarebbe irrispettoso pretendere di più da loro per il 2025, se si esclude un appello disperato alla Ferrari. Avremmo bisogno di festeggiare di nuovo un Campione in rosso che ci manca da diciassette anni.

A chi entra nel 2025 con un titolo da difendere o un traguardo da migliorare parla invece Shakespeare che nell’Enrico IV fa dire al Re quanto “riposa a disagio la testa che cinge una corona”.

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