Non sottovalutate noi giovani: il vento sta davvero cambiando

Non bambini né adulti, con un futuro zeppo di grandi incertezze economiche, climatiche, sociali e un Paese da cui si è sempre più tentati di scappare

Emma RuzzonEmma Ruzzon

Alla ricerca “giovani italiani” su Google, il secondo risultato, dopo un pezzo della Gazzetta dello Sport sui nuovi talenti da valorizzare, è un articolo sull’emigrazione giovanile. La prima domanda suggerita subito sotto, perfettamente in linea con questa interpretazione, si chiede perché i giovani italiani emigrano all'estero. Partiamo da qui.

“Giovani” è un termine ampio, che confonde psicologi dello sviluppo e sociologi.

Comprende gli adolescenti oppure no, c’è un’età limite, tipo il diciottesimo o gli anni minimi per poter votare al Senato?

“Giovani” è una parola larga e a tratti confusa, perché significa soltanto ciò che non è: non più bambini, nemmeno adulti, ma tutto ciò che rimane nel mezzo. Per dare una forma a cosa riempie questo spazio possiamo percorrere la strada dei dati statistici: un rapporto del Cnel di ottobre 2024 ci informa che in tredici anni, al netto dei ritorni, sono stati 377 mila gli italiani dai 18 ai 34 anni emigrati all’estero.

Oppure possiamo parlare di benessere psicologico, leggere i titoli di giornale oppure i talk show che tentano di descriverci, possiamo ascoltare i discorsi strumentali di chi vuole dipingerci come appestati, criminali e fannulloni.

La verità è che nella tensione tra rabbia e rassegnazione per un futuro non granché luminoso sta forse una zona grigia che ci racchiude. A scrivere un tema come fossimo alle scuole elementari, “Come ti vedi tra trent’anni”, non ne uscirebbe un quadro rassicurante.

I giovani non sanno come e dove potranno vivere, se le città in cui studiano oggi avranno condizioni climatiche accettabili; non sanno se potranno permettersi una casa, tanto meno una famiglia; se mai potranno andare in pensione, e chissà poi se le guerre, su cui egoisticamente ci concentriamo solo quando sono dietro casa, ci avranno infine raggiunto. Non sapranno, non sappiamo.

Tralasciando chi ancora liquida tutto questo con stantio paternalismo, chi invece questa situazione la riconosce spesso e volentieri ci chiede perché stiamo con le mani in mano, perché non diamo fuoco alle strade ogni volta che una nuova norma che ci mangia il futuro viene emanata. Bella domanda.

Io credo che la condizione particolare di questa generazione stia proprio nell’aver ereditato un pantano che ci rallenta dall’agire

Cresciuti come bambini individui dentro case chiuse, non abbiamo imparato che cos’è il quartiere, la strada come spazio in cui incontrarsi, e dunque il senso stesso di essere collettività, e sarà magari un concetto elementare, ma trovare delle risposte su come rialzarsi è veramente difficile da soli.

Quindi rimaniamo nella melma, sentiamo un inconscio stare male ma non sappiamo che nome dargli e come risolverlo, rimane sottopelle e alla parola “giovani”, improvvisamente, nel dibattito pubblico si associa “disagio giovanile” e “ritiro sociale”.

Eppure, nonostante nessuno ci abbia insegnato come farlo, mi sembra che il vento stia cambiando e che, piano piano, stiamo capendo come chiamarlo, questo male atavico, sconosciuto e generalizzato.

Si è tolto il velo da alcuni vecchi miti, e le finte risposte di un tempo - sulla gavetta obbligatoria, sulla competizione inevitabile, su come esistiamo comunque nel «migliore dei sistemi possibili» - non bastano più.

Chi sono i giovani oggi, quindi? Chi saranno i giovani del 2025? Belle domande, non lo sappiamo forse nemmeno noi. Ma una cosa è certa: se ci date spazio, se osate metterci al centro del dibattito e ci porgete il microfono, una risposta la troviamo: l’abbiamo visto nelle piazze, nella partecipazione che sta ricominciando a respirare.

Addirittura potremmo sorprendervi e farvi scoprire che, quando parliamo di noi, abbiamo imparato che è assai più utile parlare di tutti.

E scusate se è poco. 

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