La metafora di Delfos, la balena che ci chiede la Pace

I lavoratori del bene non fuggiranno; continueranno a pensare che l’epoca che ha modellato l’esistenza di qualche generazione non possa essere una bolla di sapone iridescente e transitoria

Fulvio ErvasFulvio Ervas

Da qualche anno sto cercando di scrivere un romanzo con protagonista un giovane maschio di balena, dal nome Delfos.

Delfos intende studiare la storia umana e raccontarla. Solca gli oceani e affonda lentamente verso gli abissi, ma è colpito dalle apparizioni di quelle strane creature che lui chiama “scimmie di mare”. Quelle che solcano la superficie dell’acqua dentro a strane strutture che, di tanto in tanto, affondano. Sono quelle che hanno cacciato, con ogni mezzo, i suoi antenati e si chiede a cosa servano davvero le “scimmie di mare” e quali eventi abbiano attraversato in tutta questa lunga scia di anni.

Ma la nostra storia, vista con gli occhi di una balena, come deve essere raccontata?

Alle balene non interessano le nostre piramidi, il Colosseo, le cattedrali, le città rinascimentali. Non significano nulla per loro.

Non credo che Delfos possa essere colpito dalle nostre biblioteche: esse contengono le nostre narrazioni. Costruzioni artificiali, non diversamente dal nostro patrimonio monumentale.

Per questo il romanzo trova difficoltà. Devo proporre qualcosa di profondo che caratterizzi la nostra storia e che abbia un valore per una balena che poi lo racconterà al mondo delle foreste e a quello di tutti i viventi.

L’unica strategia che mi passa per la mente, per convincere una giovane balena come Delfos a non scappare dal romanzo, a non partire per uno dei suoi interminabili viaggi oceanici, è dirle che noi siamo una specie animale che ama la pace. Più di ogni cosa. Nonostante i conflitti noi, caparbiamente, torniamo a comportarci bene.

Guerra e pace, di Tolstoj, viene scritto con guerra in minuscolo e pace in maiuscolo, perché come diceva Leone Ginzburg la guerra rappresenta il mondo storico e la pace il mondo umano. Delfos mi ha obiettato che sono distinzioni infantili, che la storia altro non è che il mondo umano in movimento. E il movimento è di guerra in guerra.

E allora gli ho mostrato un piccolo video dove mia madre e un gruppo di donne, tutte anziane, tutte in una di quelle case di riposo dove si va nell’attesa del paradiso, cantano con entusiasmo, come delle ragazzine: “se canti la tua voce è un’armonia di pace…” e mi pareva che la parola pace, unita agli occhi brillanti delle nonnine, fosse una dimostrazione dei nostri sentimenti. Mi rendo conto che “Reginella Campagnola” è del 1938, anno da cui non si vedeva certo un futuro di pace.

E allora cancello tutta la follia venuta prima del settembre del 1945 e provo a raccontare questi ottanta anni in cui mio nonno, che da ragazzo del’99 aveva fatto la Grande Guerra, e i suoi tredici figli, di cui solo uno aveva combattuto nella seconda, sono vissuti per moltissimi capodanni in pace.

Come siamo cresciuti, certo non privi di fastidi, ma sicuramente meno gravi delle trincee e dei bombardamenti. Un’epopea di lavoro, di studio, di capelli lunghi, gonne corte, di battaglie, di soddisfazioni, di Carosello e subito, da bambini, la magnificenza del maestro Manzi con quella mappa positiva che è stata la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, perché è quella una delle possibilità di un periodo di pace: imparare e cambiare.

E quanto siamo cambiati! Impegnandoci. Immaginando dei futuri. Anche divertendoci. Perché nei tempi di pace si dorme abbastanza bene. Si è abbastanza rilassati. E c’è il tempo per trovare cose buffe, per sorridere, che sorridere esige il tempo per lasciarsi coinvolgere, il tempo della relazione, è l’espressione dell’accettazione dell’imprevisto, è l’empatia verso l’inaspettato.

Qual è la straordinaria materia che compone tutti quelli che sono nati tra il 1945 e il 2024? Dai pochi mesi ai quasi ottant’anni? Cellule, certo. Sangue, anche. Ossa, va bene. Però se non fossimo tutti fatti di pace, quella che ci ha accompagnato, soprattutto in Europa, cellule, sangue e ossa non starebbero tutte assieme a comporre i nostri corpi, sarebbero sparse nelle trincee, nei campi di battaglia, nei luoghi bombardati.

Non ci siamo augurati solo ottanta buon Natale, ci siamo detti, senza dirlo e forse senza comprenderlo appieno, ottanta volte buona pace.

Per convincere definitamente Delfos, caparbio nella sua cetacea visione del nostro esistere, gli ho fatto persino sentire la canzone “Addio Lugano bella”, chiedendogli di concentrarsi sulla frase “Cacciati senza tregua andrem di terra in terra a predicar la pace ed a bandir la guerra”. Devo riconoscere che s’è commosso: Gaber, Jannacci, Toffolo, e Procopio rivelano un’epoca in cui l’artista aveva una sua eleganza, priva di quegli eccessi estetici che compaiono quando difettano l’acutezza dei concetti e la profondità delle parole. Solo l’apparenza come significato. Immagini che non diventano riflessioni.

È la pace, la pace il nostro lavoro, dico.

Ma è a questo punto che Delfos mi colpisce diritto e sgonfia lo sviluppo del romanzo. Lo fa citando un famoso fisico, Emilio Del Giudice, è chissà tra quali onde l’avrà scoperto: “La legge della biologia richiede la cooperazione. La legge dell’economia richiede la competizione. Quindi, una società competitiva è intrinsecamente patologica. La competizione è l’esatto contrario della risonanza: come faccio a risuonare con qualcuno, se debbo competere con lui, perché o vinco io o vince lui?”.

I tanti semi di pace nati dai frutti di questi ottant’anni non paiono germogliare. Non si diffonde una foresta di pace. Grossi incendi ovunque.

Un laureato in Scienze Agrarie come me deve chiedersi come mai questi semi non abbiano attecchito. Perché il terreno sia diventato inospitale. Perché manchi nutrimento o acqua.

Dipende davvero dalla violazione delle leggi della biologia? Perché ci siamo allontanati da ogni tipo di oceano e viviamo in deserti? L’oceano come pace e il deserto come guerra?

L’articolo 44 dello Statuto dei Lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato, concede al lavoratore di allontanarsi dal posto di lavoro o da una zona pericolosa senza subire alcuna conseguenza.

È il diritto alla fuga.

Ma io dico a Delfos che i lavoratori della pace non lo faranno. Non scapperanno. Continueranno a pensare che l’epoca che ha modellato l’esistenza di qualche generazione, non possa essere una bolla di sapone. Iridescente e transitoria.

Perché non possono essersi abbuffati di pace e lasciare ai loro figli i resti del bivacco.

Allora sì che Delfos avrebbe ragione assoluta. Il romanzo non si completerà mai.

Ma sono sicuro che piacerà, anche a una balena, la caparbietà di chi sogna le trincee riempite di terra per piantare fiori e alberi.

Sono sicuro…

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