Riforme: il trittico che inquieta il governo Meloni

FdI spinge per il premierato, la Lega per l’Autonomia, FI per la separazione delle carriere dei giudici. Solo quest’ultima sembra avere chance nel 2025

Carlo BertiniCarlo Bertini

Ahi le riforme, queste sconosciute... Parola magica che da quarant’anni racchiude i sogni di grandezza di tutti i presidenti del Consiglio, sogni puntualmente traditi dal destino crudele e spesso dagli spietati elettori. Che magari votano i leader, ma più che a ogni altra cosa tengono alla loro Costituzione, insegna la storia.

Ecco dunque il cahiers de doléances di tutti i primi ministri: da Bettino Craxi (il primo a parlare di presidenzialismo già nel 1979) e la sua “grande riforma” mai realizzata, fino a Giorgia Meloni, che ancora oggi ci prova; da Silvio Berlusconi (il suo federalismo fu sconfitto nel 2006 al referendum ed era firmato da un certo Roberto Calderoli) fino a Matteo Renzi, che ci lasciò le penne (politicamente parlando) nel 2016 quando chiese di abolire il Senato.

Stesso dicasi per Enrico Letta, che tentò di fare riforme bipartisan col Cavaliere. Mentre un astuto Massimo D’Alema si fregiò nel 2001 della famigerata riforma del Titolo V della Carta, quella sui poteri alle regioni: mal gliene incolse, perché molti dei guai derivati alla sinistra dalla corsa al regionalismo spinto nascono proprio da quel peccato originale. Da cui germoglia l’Autonomia differenziata, che oggi mina il governo di centrodestra perché difficile da realizzare.

Senza scordare le tre commissioni bicamerali fallite, se proprio si deve citare qualcuno più fortunato di altri, quello è Giuseppe Conte: con la minaccia di rifiutare un patto di governo, nel ’19 costrinse i dem di Nicola Zingaretti a votare una riforma di sistema come il taglio di parlamentari e vitalizi, ma il suo M5s nel ’22 non ebbe fortuna alle urne. Il popolo, pur cibato ad antipolitica, è sempre ingrato.

Le tre incompiute

Ecco dunque le tre incompiute che turberanno i sonni di Giorgia Meloni di qui al 2027, se non sarà costretta a causa loro di portare tutti al voto prima. I bookmaker prevedono che di riforme Giorgia ne porterà a casa una su tre, la separazione delle carriere dei giudici, cara solo a Forza Italia, essendo lascito ideale del Cavaliere. A gennaio approderà in aula alla Camera; poi a stretto giro supererà l’ostruzionismo di Pd e 5s per volare al Senato. A luglio sarà approvata, in tempo per far celebrare un bel referendum nel 2026. Primo di tre, tutti a rischio per la premier. Ed ecco l’ingorgo di date.

Sì, perché le tre riforme del governo Meloni si incrociano: se il premierato è fermo ai box della Camera (bersagliato dai costituzionalisti, perché darebbe dominio assoluto su tutte le istituzioni a un solo leader eletto), l’Autonomia è andata a infrangersi sui muri del Palazzo della Consulta, da cui è uscita a pezzi.

Ma non al punto da non poter essere a quanto pare sottoposta lo stesso a referendum. Ad aprile si voterà se abrogarla o no. E qui casca l’asino: perché Meloni ed Elly Schlein temono lo show down in caso di sconfitta. Entrambe subirebbero una mazzata: la premier, secondo un esperto come Matteo Renzi, se perdesse sarebbe costretta a dimettersi.

Se invece il quorum sull’Autonomia non fosse raggiunto, forte del successo il governo potrebbe sperare nel giudizio benevolo degli italiani sul secondo referendum, quello sulla giustizia nel 2026. E infine, stando ai soliti bookmakers, Meloni varerà il premierato con calma, per far celebrare il terzo referendum non prima, ma dopo le politiche del 2027. Temendo che, facendo votare nello stesso giorno alle politiche e su una riforma che potrebbe far dimettere all’istante Sergio Mattarella, la scelta non cadrebbe in suo favore in entrambe le urne. Dunque... che pena queste riforme! 

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