Leader: il mondo alle prese con i nuovi condottieri
L’Europa ha il motore ingolfato. Trump può riscrivere le regole del gioco, ma la sua idea di America semina troppe incertezze. Dopo un anno da crepuscolo degli dei, il 2025 può essere lo spartiacque per trovare chi saprà guidarci
L’analisi perfetta del nostro tempo è in una battuta di cent’anni fa. Il conservatore Andrew Bonar Law, premier britannico per otto mesi dall’ottobre 1922, risulta aver detto una frase che fotografa con precisione lo spirito del mondo in cui viviamo: «Devo fare quello che dicono, sono il loro leader».
Non è chiaro se il capo del governo di Giorgio V si riferisse al partito o agli elettori, ma fa poca differenza. Perché, oggi, i pochi leader in apparenza forti stanno dimostrando di seguire il popolo e non di condurlo, reagendo più ai sondaggi che all’impulso di realizzare le proprie convinzioni. In sintesi, si orientano a gestire il consenso che può garantire la permanenza al potere, più che imporre una strategia che badi al benessere collettivo. È il trionfo dell’umore; guida la pancia più che la testa.
Il 2024 è stato un anno di ribaltoni. L’Europa arriva al traguardo di dicembre col motore politico ingolfato, senza condottieri a cui votarsi: il cancelliere tedesco Scholz è in uscita, il presidente francese Macron procede su un ghiaccio sottilissimo. Solo la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si candida a punto di riferimento per l’Europa. Dopo essersi garantita il potere assoluto nell’esecutivo Ue, ha iniziato bene andando a Montevideo per l’accordo Mercosur e a Ankara per parlare di Siria. Tuttavia, nell’Unione comandano i governi, dunque i suioi margini son in ultima analisi assai limitato.
Caduto il democratico Joe Biden, a Washington va in onda un’inversione di scena che può riscrivere le regole del gioco per tutti, introducendo un regionalismo bilaterale Usa-Cina in luogo di una globalizzazione a più voci, anche se l’imprevedibilità di Donald Trump semina incertezze anche sulla natura e la direzione del cambiamento probabile. In dodici mesi, 76 elezioni hanno rimpastato le sale del potere del globo, dal Giappone alla Romania, passando per il Belgio che, tanto per cambiare, è senza governo da giugno. Non aiutano l’incendio medio-orientale e le turbolenze latinoamericane.
Il senso del voto europeo è stato tradito dall’astensionismo, altro malanno di stagione. L’integrazione comunitaria conserva comunque la maggioranza del sostegno degli elettori. Ma ciò non toglie che la forza combinata di sovranisti e nazionalisti abbia minato la solidità degli assetti politici tradizionali spingendo l’Ue, e non solo, in mezzo a un difficile guado. La vecchia politica non va, la nuova non è ancora arrivata. Il risultato è che i leader sono diventati fragili creature del passato. Non ci sono. E se ci sono, con qualche eccezione come l’Italia e la Polonia, hanno il serbatoio in riserva.
Martin Luther King pensava che "un vero leader non va a caccia di consenso, ma deve modellarlo”. Questo manca all’Europa, ora. E, per certi versi, anche all’America. C’è bisogno di figure che sappiano condurci dove non siamo mai stati, non seminatori di mance mirate a tenere buoni i cittadini là dove sono. La leadership è azione, non il mantenimento di posizione.
Dopo un 2024 da crepuscolo degli dei, il 2025 potrebbe essere lo spartiacque. Perché se non si trova chi saprà condurci avanti nel progresso, resteremo dove siamo, esposti inesorabilmente alla possibilità di cadere sempre più giù. Una leadership non è mai di per sé salvifica. Funziona se è frutto di un’azione collettiva. In caso contrario, si pone ogni premessa per veder germogliare autorità malate, dittature e assolutismo.
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