Le migrazioni e la natura che non ha muri
Nella storia gli uomini non hanno fatto altro che valicare frontiere: le migrazioni sono un problema, ma anche una via d’uscita. Si stima che il 10 percento del Pil globale dipenda da chi vive in un Paese diverso da quello di nascita
Confine è un richiamo e un monito. È parola che evoca in noi il senso di un limite – una linea che circoscrive, definisce e chiude lo Stato – e al contempo ci sussurra l’invito a un attraversamento: supera questa linea, se ne hai il coraggio, vai a vedere se di là è meglio.
Una parola o un concetto che pare contenere al proprio interno l’idea ineliminabile di movimento: a ben vedere, nella storia gli uomini non hanno fatto altro che spostarsi valicando frontiere naturali o politiche e questo ci ha resi ciò che siamo, per quanto difficile appaia oggi da capire.
Ma cosa intendiamo quando parliamo di confini? C’è in noi un sentimento ereditato dagli anni della Guerra Fredda che rimanda al filo spinato e ai soldati di sorveglianza, ai popoli chiusi claustrofobicamente dentro ossessioni dittatoriali, libri e calze di nylon nascosti nei doppi fondi delle valigie. Un sentimento storico e politico recente, dal momento che i confini, così come li conosciamo oggi, sono frutto di accordi seguiti a guerre e mediazioni in un passato novecentesco.
Soprattutto sono un’idea degli uomini, nata da necessità pratiche. Dopo la Prima guerra mondiale, ad esempio, la nuova ridefinizione rispondeva anche a un’esigenza determinata dal passaggio dall’economia agricola a quella industrializzata: non era più possibile immaginare un’Europa costituita da piccoli staterelli perché non avrebbero avuto le risorse necessarie allo sviluppo, l’acciaio e il carbone, e al contempo i grandi imperi erano diventati difficili da gestire. I nuovi confini erano quindi prima tutto più efficienti.
Quando ero bambina i confini determinavano la nostra conoscenza del mondo, organizzata in paesi che si visitavano e paesi che si immaginavano. Nei primi viaggiavamo liberamente, anche se muniti di documenti, ci fermavano ai cambiavalute per sostituire le lire con i franchi, con il “marco-forte”, erano paesi di cui studiavamo la lingua a scuola. E poi c’era lo sconfinamento più emozionante, quello negli sbarazzini paesi non allineati, le Repubbliche di Jugoslavia, dove tutto era diverso, i gelati e i succhi di frutta, erano vicini di casa di cui non studiavamo la lingua eppure la riconoscevamo a orecchio. Più grande, ho imparato che la familiarità con quel confine non era condivisa dalla nazione.
E poi c’era una parte di mondo che immaginavamo soltanto. Rimase mitico nella memoria familiare un viaggio di mia madre in Cecoslovacchia, possibile solo grazie a una cugina che studiava letteratura e ottenne un visto per entrambe. Il confine a est, invalicabile e pericoloso, attraversabile solo grazie al sotterfugio dei libri, è stato il formidabile generatore di desideri e fantasmi della mia infanzia, determinando in parte quello che è accaduto dopo.
Avevo già finito l’università quando venne abbattuta la sbarra di frontiera con la Slovenia: i popoli festeggiarono nella notte di dicembre, la Jugoslavia non esisteva più da un pezzo, da anni viaggiavamo per mezza Europa spensierati e senza documenti. Fino ai diciott’anni avevo trascorso tutte le estati camminando in montagna, spesso trovandomi di là senza accorgermene dopo aver guadato un torrente o semplicemente seguito un sentiero, avevo così imparato che i confini possono essere creati dalla natura, i muri invece sono un prodotto umano.
I muri non sono attraversabili, non permettono di vedere di là, sono sorvegliati da sentinelle armate che a volte perdono la testa e finiscono per ammazzarsi, per solitudine, per l’alienazione di quelle zone crepuscolari. I mari, le montagne, i fiumi sono invece confini attraversabili, sono linee che chiamano incontri e solidarietà tra viaggiatori, che animano storie.
Credevamo di essere entrati nell’era dei confini morbidi, ne abbiamo approfittato a mani basse per imparare nuove lingue, fidanzarci con ragazzi e ragazze di nazionalità diverse, costruire nuovi sogni. Da qualche anno però soffia un vento differente, qualche frontiera si chiude, si invocano i muri, torna il filo spinato e i soldati giovani con i fucili che spingono indietro le persone che arrivano a piedi. Trionfa la filosofia di Stato dell’ognuno per sé, il confine evoca parole come “difesa”, “sicurezza”.
A nulla servono i dati degli economisti che mostrano come circa il 10% del pil globale sia determinato da persone che hanno attraversato le frontiere per lavorare e vivere in un paese diverso da quello in cui sono nati. Addirittura, calcolano questi sediziosi economisti, se i confini fossero liberamente attraversabili il pil globale aumenterebbe tra il 100 e il 150 per cento.
Proliferano i muri, ma non dobbiamo dimenticarci che la natura non li riconosce, spesso li distrugge. Così, in un mondo globale animato dalla retorica delle frontiere ostili, incendi e uragani e inondazioni si abbattono sui paesi senza curarsi delle linee che li dividono. Un numero sempre maggiore di territori sta diventando molto vulnerabile, presto alcune zone del pianeta saranno difficilmente abitabili. Non è una situazione nuova per l’umanità, anche se non si è mai presentata in questa forma. Il trasferimento della popolazione è stata la soluzione che l’uomo ha spesso adottato in passato per sopravvivere alle avversità naturali: migrare per trovare luoghi più propizi allo sviluppo.
E allora, se quella ambientale è senza dubbio la crisi più grave del nostro tempo, la capacità di affrontarla dipenderà anche da come sapremo intendere i confini. Le migrazioni sono un problema ma sono anche una via d’uscita. E se il principale ostacolo al movimento delle persone è l’idea che esista un’identità nazionale autentica e pura, che alcune persone “appartengano” a un certo luogo e altre no, forse basterebbe guardare alle nostre esperienze personali per convincerci che noi siamo ciò che siamo perché a un certo punto nelle nostre storie familiari qualcuno ha deciso di appartenere a un luogo e non a un altro, e che l’appartenenza ha a che fare con i libri, il movimento, la libertà di scelta e la cultura, non certo con i muri. Siamo ancora in tempo per capirlo.
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