Come sarebbe bello se ci riappropriassimo della realtà
La politica italiana, e non solo, pare una Wonderland dove si aggirano delle Alici che possono dire tutto e il suo contrario, tanto nessuno verificherà: è la sistematica negazione del vero
La parola che nel ‘25 vorrei più usare e soprattutto vedere più usata è Realtà, sì, con la maiuscola come si conviene alla Cara Estinta. Si tratta ovviamente di un wishful thinking, come si dice dentro la Ztl, e forse l’espressione italiana che rende più l’idea è “pia illusione”. Però un tuffo nella realtà farebbe molto bene al nostro dibattito pubblico.
Ci vorrebbe un sano bagnetto pragmatico e de-ideologizzato nei fatti, nelle cose per come stanno, non per come si vorrebbe che stessero o per come dovrebbero stare. La politica italiana, e per la verità non solo la nostra, sembra invece una sorta di Wonderland dove si aggirano delle Alici che possono dire tutto e il suo contrario, tanto non ci sarà mai nessuno che verificherà la coerenza dei propositi con la loro effettiva realizzabilità.
Tradotto: si parla a vanvera.
Prendiamo per esempio l’attuale dibattito sulla legge di bilancio, che porta il nome, forse ironico dato lo stato delle finanze pubbliche, di finanziaria. Tutti, da destra e da sinistra, dalla maggioranza e dall’opposizione, a chiedere investimenti, provvidenze, sussidi, aiuti, sgravi, contributi, defiscalizzazioni e così via.
Come se la realtà dell’enormità del debito pubblico italiano non esistesse e senza mai indicare dove trovare le coperture finanziarie che pure ci vorrebbero, se non altro per rispettare la Costituzione, articolo 81, il più dimenticato (i padri costituenti conoscevano i loro polli, specie quelli di razza italiana).
Ormai qualsiasi populista in cerca di facili consensi, in pratica tutti, propone di far debito come se fosse un’iniziativa meritoria e non un gesto irresponsabile che carica le imprevidenze di oggi sulle spalle delle generazioni di domani.
Altro esempio?
Dopo ogni fatto di sangue di rilevanza mediatica, fra i sullodati populisti scatta una reazione automatica, pavloviana: bisogna aumentare le pene e introdurre nuovi reati. A parte il fatto che le statistiche dimostrano che i delitti, in Italia, sono costantemente in calo, l’isterica invenzione di nuovi reati contribuisce soltanto a ingolfare una giustizia in sistematico arretrato su tutto.
Il guardasigilli Nordio, di cui si possono certo discutere le opinioni ma non la conoscenza della macchina giudiziaria, visto che ne ha fatto parte per tutta la vita, aveva proposto esattamente il contrario: una massiccia depenalizzazione. I frenetici decreti-sicurezza del governo, in effetti producono l’unico risultato di rendere più inefficiente la giustizia penale, quindi paradossalmente di aumentare la percezione dell’insicurezza.
Ma per i manettari, anche qui assolutamente bipartisan, di destra o di sinistra per me pari sono e sono una peggio dell’altra, non pare vero di andare in televisione a sbraitare di aumenti di pena, castrazioni chimiche, chiavi delle celle da gettare e altre analfabetiche sciocchezze. Tanto nessuno contesterà loro che fra i proclami e i fatti, l’irrealtà della propaganda e la realtà della situazione, c’è un abisso che diventa sempre più profondo e, di fatto, rende impossibile qualsiasi discussione seria.
Non basta?
Prendiamo la politica estera. Per la prima volta dal Dopoguerra, l’Europa potrebbe doversi difendere da sola. Per ottant’anni, abbiamo vissuto relativamente sicuri sotto l’ombrello dello zio Sam. Adesso Trump minaccia l’uscita degli Usa dalla Nato e, anche se non lo farà, di certo la sua politica estera subirà una svolta isolazionista. Che questo corrisponda ai veri interessi americani è tutto da vedere, e in effetti dall’altra parte dell’Oceano molto se ne discute.
Quel che interessa da questa parte è che sempre meno potremo delegare la nostra difesa ai marines, e proprio nel momento in cui la Russia si fa minacciosa. Siamo nel fortino assediato dagli indiani, ma questa volta non arriveranno le giubbe blu a salvarci. Pensarci e prepararsi al peggio è un’esigenza del tutto evidente, anche perché farsi trovare pronti a una guerra è il modo migliore per non farla scoppiare.
In molti Paesi europei, perfino nella finora neutralissima Svezia, sperando ovviamente di non doverla fare, si prende in considerazione l’idea di una guerra. Invece in Italia prevalgono gli slogan.
Ci è toccato ascoltare un ex presidente del Consiglio (pessimo, d’accordo, ma pur sempre qualcuno che ha avuto responsabilità istituzionali, e che quando stava a Palazzo Chigi aveva aumentato il budget della difesa) strillare a Bruxelles: “Basta spese militari!”. Come se non fosse in corso l’aggressione della Russia all’Ucraina, non fosse stato eletto Trump, le minacce alla sicurezza non diventassero sempre di più e sempre più gravi. Ma la realtà, appunto, è una variabile, non cale, non conta. Contano solo i facili consensi di una pubblica opinione decerebrata.
E infatti sull’autostima nazionale, concesso e non dato che qualcuno la nutra, si è abbattuta come un uno-due pugilistico la doppia mazzata targata Censis e Ocse. Il primo ci ha fatto sapere che il 49,7% degli italiani non sa in che epoca si è verificata la Rivoluzione francese, che per il 32,4 la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto, che per il 20,9 gli ebrei dominano il mondo con la finanza e che per il 15,3 l’omosessualità è una malattia.
Quanto all’Ocse, ha certificato che un terzo degli italiani è sì in grado di leggere un articolo di giornale (un articolo tipo questo, attenzione, non un saggio di metafisica) ma non di capire cosa c’è scritto, e che la preparazione media di un laureato italiano è inferiore a quella di un diplomato finlandese.
Per un Paese in queste condizioni, è pacifico che una classe dirigente irresponsabile continui a parlare di tutto senza sapere nulla. Nel suo ultimo editoriale sul “New York Times”, Paul Krugman ha parlato di “kakistocrazia”, il governo dei peggiori. Forse in Italia sarebbe più giusto parlare di “onagrocrazia”, come la chiamava Benedetto Croce: il governo degli asini. Per carità, nessuno pretende di essere amministrato soltanto da premi Nobel, che poi probabilmente non funzionerebbero nemmeno loro. Il problema vero non è la mancanza del Sapere, che pure è grave.
È la sistematica negazione della Realtà, che è letale.
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