Le sfide dell’economia tra la minaccia dei dazi e la “peggiocrazia”

Che cosa succederà nel 2025 con il ritorno alla Casa Bianca di Trump e i nuovi scenari politici in Europa

Marco ZatterinMarco Zatterin

Secondo il calendario cinese stiamo entrando nell'anno del serpente, figura dello zodiaco che porta con sé l'esigenza di cautela e pragmatismo nella gestione dell'economia.

Non serviva che lo dicessero gli astri, ma il sincronismo rafforza l'urgenza. L'anno che chiude il primo quarto del millennio si annuncia complesso e insidioso. Inutile angosciarsi, non serve.

Ma a mettere in fila le incognite che si addensano come nubi nere nei nostri cieli, si capisce che servono dosi da cavallo (il segno del 2026) di talento, misura e capacità di adeguarsi al cambiamento.

Anche se, senza la pratica del buon governo, buona parte dello sforzo rischia di finire orribilmente sprecato.

In una conversazione privata a Francoforte, un banchiere centrale ha espresso preoccupazione per quello che attende l'Europa.

Nell'ordine, non gli piace la crescita bassa e diffusa, teme per l'industria continentale ferma da mesi, trema per una manifattura gloriosa che invecchia male, per l'innovazione insufficiente a tenere il passo coi rivali americani e cinesi, vede l'orrore di troppe guerre e rabbrividisce per il diffondersi di un pernicioso nazionalismo che rende difficile fare la forza con l'Unione come si dovrebbe.

In questo scenario politico, l'Economist ha rispolverato una parola desueta, cucinata da un inglese a metà del XVII secolo e utilizzata da Vittorio Alfieri per spiegare la fine della Repubblica di Venezia piegata dai francesi.

È kakistocrazia, ovvero la situazione che si viene a creare quando gli scarsi o gli inetti vanno al potere

È il regime in cui molti Paesi occidentali sono finiti per un milione di ragioni, anche se alla base di tutto, per usare le parole del presidente Mattarella, c'è "una società che sembra oggetto di forze centrifughe divaricanti" di cui la politica è democratica espressione.

Nel 2025 una buona parte dei nodi verrà al pettine, toccherà l'economia e "il dragone avrà la coda del serpente", come dicono in Cina. Può essere un alibi per non fare nulla. O uno stimolo a fare meglio. Comunque sia, è il tempo di scegliere da che parte stare.

La crescita perduta

Per capire dove si va, conta la velocità di uscita da un anno per l'altro. Il problema è che la dinamica europea della creazione di ricchezza si è sgonfiata come un soufflé venuto male.

La locomotiva tedesca è ingolfata e la Bundesbank prevede un'espansione di appena lo 0,2 per cento nel 2025, dato giudicato ottimistico dagli analisti dell'Ifo.

La Francia dovrebbe fermarsi sopra il mezzo punto, a patto che la crisi politica non imponga un prezzo più elevato.

L'Italia "corre" secondo il governo italiano e "va meglio degli altri", ma la prima cosa non è vera (il più 0,5 per cento col doping del Pnrr del 2024 non è neanche un passo svelto) e la seconda non porta alcun vantaggio, visto che tedeschi e francesi sono fra i principali acquirenti del "made in Italy".

Se poi Trump metterà i dazi, molti Paesi europei potrebbero finire sotto zero. L'America dovrebbe andare bene ma non benissimo (+2% nel biennio che arriva). La Cina farà quasi il 5 per cento, dice la Banca Mondiale. L'Europa potrebbe essere schiacciata dalla crescita perduta. Urge un cambio di passo collettivo che non si vede. Il rischio di caduta è serio. Teniamoci forte

I tassi interessanti

La Bce poteva fare prima e meglio, ma alla fine l'inflazione comunitaria è stata imbrigliata. Nell'Eurozona il ritmo di aumento dei prezzi punta diritto al 2 per cento, in Italia è già sotto, sebbene i panieri non riflettano come dovrebbero i rincari. I tassi di interesse sono da mesi in netto calo. Il tasso di deposito della banca centrale (arrivato al 3 per cento in dicembre) potrebbe spingersi sino al 2 per cento a fine anno o all'inizio del 2026.

Sarebbe manna caduta dal cielo per chi vuole investire e per gli stati che devono vedersela con un alto indebitamento (come l'Italia), per i quali si avrebbe una importante riduzione del costo dello scoperto (secondo l'Ufficio Parlamentare di Bilancio il risparmio del 2025 vale già 1,7 miliardi per il Tesoro). La discesa del costo del denaro aiuterebbe l'economia e, riducendo i rendimenti delle emissioni obbligazionarie, darebbe impeto alle Borse dopo la cavalcata dell'anno che si chiude.

Al di là dei fattori geopolitici, il motivo di varianza è il presidente eletto Donald Trump: coi dazi commerciali può rinfocolare l'inflazione interna, costringere la Federal Reserve a congelare la discesa dei tassi, pompando il dollaro, e limitando così le ambizioni di crescita globale. Se sbaglia lui, paghiamo tutti

I mercati e la bolla

La Borsa impone scommesse, più che previsioni. Il 2024 è stato un anno ottimo, ma il contesto racconta bene le diseguaglianze planetarie. Il mercato americano è triplicato in valore dal 2005, mentre nello stesso periodo quello europeo è cresciuto del 60 per cento.

Il problema è, come sottolineato da Christine Lagarde, che "l'Europa perde terreno come produttore delle tecnologie con cui si sta disegnando il futuro". È un punto di vista ottimistico, in realtà il divario tecnologico fra i due lati dell'Oceano è immenso.

La questione è che quest'anno i listini Usa sono stati trainati per un quarto delle società hi-tech, che hanno incassato lauti rialzi mentre le altre hanno guadagnato poco quando non hanno perso.

La volata è stata tirata dalla febbre dell'Intelligenza artificiale. Goldman Sachs prevede che l'indice S&P 500 segnerà un altro +9 per cento nel 2025. Possibile.

Al netto dei fattori geopolitici, coi tassi in discesa la direzione è quella. Ma il bravo investitore non dovrà mai smettere di chiedersi se, e quando, la bolla dell'Ia sia destinata a esplodere. Perché, forse più poi che prima, tanti pensano sia inevitabile che succeda

La globalità e la futurabilità

Il futuro non è un'ipotesi e il mondo è un luogo competitivo. Nella terra delle tigri asiatiche sono in pochi a prendere prigionieri mentre sfidano un'America che applica la regola del più forte e sregolato.

L'Europa è fra due fuochi, bella nei discorsi, odiata nella pratica, solidale nelle crisi, fragile nella gestione dell'ordinario. La rivoluzione dei chip l'ha riportata in una realtà di umori e numeri che assomiglia più al XIX che al XXI secolo. Viviamo del passato.

Fra i primi quindici costruttori di auto mondiali per vendite non c'è neanche un europeo, sebbene sia di casa nell'Ue il 40 per cento della spesa in Ricerca nel settore automotive. Solo quattro "nostre" imprese sono nella Top 50 Tech del pianeta.

Nel 2025 la distanza coi primi della classe è destinata ad aumentare, per mancanza di spirito comune e ridotta disponibilità di materie prime, quest'ultime frenate dalla lobby agricola che intossica quei governi che si oppongono all'intesa Mercosur che porterebbe dalle nostre parti tonnellate delle terre rare necessarie per i microchip.

Servirebbe un Next Generation Tech, una cassa comune che metta il futuro al centro dell'attenzione. Non tira aria che succeda. Così si resta sull'orlo del precipizio tecnologico, come se nulla fosse, mentre tutto è. 

La minaccia dei dazi

Donald Trump ha dichiarato che la parola più bella del vocabolario è "dazi". Gli americani, forse inconsapevoli che quando un governo introduce misure tariffarie restrittive sono i consumatori a pagarle, hanno accolto con ardore la campagna di xenofobia commerciale, senza considerare che l'aumento del costo dell'import ha effetti sull'inflazione, ovvero sul costo della vita che sale. Non è chiaro cosa farà The Donald, quanti saranno i dazi e chi colpiranno.

L'Europa è minacciata con i suoi 500 miliardi di export annuale e una tariffa del 20 per cento potrebbe frenare i flussi, e costare un punto di crescita in media.

Se ci fosse un 60 per cento di pedaggio sulle vendite cinesi, l'effetto negativo sarebbe duplice: aumento netto dei prezzi negli Usa (il 70 per cento delle merci qui acquistate su Amazon viene dalla Cina); riorientamento dell'invenduto a prezzi da saldo verso l'Europa.

Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, ha avvertito che se Trump manterrà la minaccia "il commercio internazionale arriverà a un significativo punto di svolta". Pochi credono possa essere positivo. Probabilmente neanche Elon Musk

L’era della peggiocrazia

Eccoci alla kakistocrazia, il governo dei pessimi; "peggiocrazia", interviene la Treccani. L'Europa è rimasta senza leader costruttori di futuro condiviso, e non solo lei.

Si va al potere con la sega elettrica, come in Argentina, o dichiarando guerra all'Islam, come nei Paesi Bassi.

Il risultato è che il nazionalismo avanza nell'Ue quando bisognerebbe integrarsi per fare gli interessi comuni con un impegno collettivo, dall'export ai dazi. Invece, non avremo un governo tedesco sino a primavera inoltrata e la Francia sarà instabile sino a tarda estate, pertanto l'Europa non avrà motore (che piaccia o no, sono sempre Berlino e Parigi a tirare la carretta) e la forza per le necessarie decisioni con cui ridare vigore all'economia e trovare i fondi del rilancio.

L'unica soluzione alle incognite delle transizioni e alle esigenze crescenti della difesa (un italiano su due crede che avremo una guerra mondiale nei prossimi tre anni, fonte Ipsos), è la cassa comune europea. Sono i fondi congiunti raccolti (anche) sul mercato per investire in progetti di interesse collegiale, dal lavoro ai microchip, passando per l'auto e la salute. Ci vorrebbe saggezza, il contrario della kakistocrazia nelle cui braccia una parte rilevante del Pianeta si sta affidando come se fosse un sogno e non un incubo

 

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