Cercare un altro lavoro non è questione di soldi
Fra i giovani hanno più peso work-life balance, opportunità di carriera, flessibilità degli orari. Una quota non marginale manifesta il proposito di dimettersi anche senza avere un’altra offerta

Come narrano le statistiche sul mercato del lavoro, nel breve volgere di pochi anni – con il periodo pandemico a fare da spartiacque – le dinamiche sono molto mutate. Se il ricorso a lavoratori temporanei e flessibili aveva conosciuto una diffusione crescente, negli ultimi anni – complice anche la questione demografica e le normative – è lievitata la propensione delle imprese a stabilizzare i lavoratori con contratti di lavoro a tempo indeterminato. Tuttavia, il mismatch fra domanda e offerta di lavoro, soprattutto giovanile, è argomento che da qualche tempo occupa un posto centrale nelle riflessioni e nel dibattito pubblico, in particolare nel mondo imprenditoriale.
Com’è noto, le aziende faticano non più (o solo) a trovare le competenze professionali che cercano, ma a questo problema si aggiunge la scarsità delle giovani generazioni (per gli effetti del calo demografico). Diminuisce la capacità di attrarre e trattenere le persone, perché sempre più spinte a una mobilità sul mercato alla ricerca di occupazioni più confacenti alle proprie aspettative personali.
Cambiare lavoro
Dunque, in che misura i lavoratori italiani hanno intenzione di cambiare la propria occupazione nei prossimi periodi? Il confronto con alcune precedenti rilevazioni (Community Research&Analysis), sembrerebbe mettere in luce una stabilizzazione del fenomeno dell’abbandono del (meglio, del cambiare) lavoro. Solo rilevazioni successive potranno confermare questa interpretazione. Ciò non di meno, il fenomeno è significativo dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Infatti, l’universo sondato, a fronte di una simile prospettiva, vede una prevalenza di chi non ha intenzioni di fare una simile scelta (64,7%), mentre il restante 35,3% – con diverse modalità e tempi – esprime il proposito di cambiare.
Le proporzioni paiono essere le medesime nelle diverse ricerche. E, in particolare, è interessante considerare come una quota non marginale (6,9%) manifesti l’intendimento di dimettersi anche senza avere un’altra offerta di lavoro. Ma andiamo per ordine.
Più maschi che femmine
Il disegno di cercare un’altra occupazione coinvolge maggiormente la platea maschile (38,5%) rispetto quella femminile (31,5%). Inoltre, è inversamente proporzionale al crescere dell’età. Quanto più si è giovani, maggiore è l’idea di cercare una nuova occasione di lavoro (46,9%, 18-34 anni), propensione che intuitivamente scema con l’aumentare dell’anzianità (20,8%, oltre 50 anni).
Il possesso di una laurea (38,4%) e lo svolgere una mansione esecutiva (37,6%) costituiscono altri due aspetti che spingono a mobilitarsi attivamente sul mercato. Sotto il profilo territoriale, il Nord Ovest (37,8%) e il Sud e le Isole (39,9%) sono le due aree dove maggiore risulta questa propensione, plausibilmente per motivi e condizioni diverse. Nel primo caso, il mercato offre molteplici occasioni e per le persone risulta più agile mobilitarsi alla ricerca di un’occupazione. Nel secondo, è probabilmente la scarsità di buone condizioni a spingere la possibilità di cercare nuove occasioni.
Il motivo principale della scelta di lasciare un impiego per un altro trova fondamento in particolare in una ragione strumentale, la possibilità di aumentare la retribuzione percepita (30,2%). Seguono, più a distanza, ma appaiate fra loro, altre dimensioni più squisitamente espressive, legate al bilanciamento del lavoro con gli spazi personali (14,3%), l’avere maggiori possibilità di progredire nella crescita professionale (16,2%), assieme all’opportunità di mettere a frutto le passioni personali (13,4%). Da ultimo, troviamo la maggiore vicinanza della sede di lavoro alla propria abitazione (10,4%) e la reputazione dell’impresa (5,7%).
Carriera stipendio e orari
Aggregando opportunamente le risposte, possiamo suddividerle secondo due criteri di fondo: da un lato, le motivazioni di carattere «strumentale» (retribuzione e vicinanza) e, dall’altro, quelle maggiormente «espressive» (work-life balance, opportunità di carriera, flessibilità degli orari, mettere a frutto le passioni e altre).
L’esito qui raccolto, confrontato con quelli delle precedenti rilevazioni, evidenzia come le motivazioni rimangano costanti e ben identificate. Prevalgono nettamente quelle di natura «espressiva» (59,3%) rispetto a quelle più «strumentali» (40,7%). Quest’ultime trovano maggiore diffusione presso le generazioni più adulte (47,5%, oltre 50 anni), con un basso livello di studi (50%), chi svolge una mansione esecutiva (46,3%) in un’impresa dei servizi (43,9%), lavora full time in azienda (42,7%) e risiede nel Centro (44,6%).
Viceversa, gli «espressivi» si annidano nelle età centrali (62,3%, 34-49 anni) e fra i più giovani (59,8%, fino a 34 anni), chi possiede un diploma (60,1%) o una laurea (60,7%), svolge mansioni tecnico-impiegatizie (64,6%) e terziarie (63,0%), svolge un lavoro in forma ibrida (63,2%, smart, telelavoro, part time), e in particolare chi vive nel Nord Est (62,5%). Dunque, sono le giovani generazioni a essere “qual piuma al vento” sul mercato: in numero sempre minore e spinti a emigrare all’estero in cerca di migliori opportunità, sono però spesso vittime di stereotipi incapaci di cogliere le dinamiche che li caratterizzano.
Vivono in un’epoca radicalmente diversa da quella delle generazioni precedenti, caratterizzata dalle ripercussioni dell’esperienza pandemica, della rivoluzione digitale e della continua trasformazione del mondo del lavoro alla quale stanno contribuendo essi stessi. Il concetto di posto fisso è ormai superato: i giovani guardano al lavoro come a un percorso dinamico, meno legato a un luogo fisico e più centrato sulla propria occupabilità.
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