Economia, l’unica via per uscire dall’incertezza è arginare l’onda
Sullo sfondo della presentazione delle aziende Top 100 a Nord Est: dalle guerre – quelle sul terreno e quelle commerciali – alle crescenti tensioni politiche, il serbatoio che alimenta il clima di precarietà è molto capiente


«L’incertezza a livello globale resta elevata, alimentata dalle persistenti tensioni geopolitiche e commerciali», un contesto che «penalizza gli scambi internazionali e accentua la frammentazione dell'economia mondiale, contribuendo al rallentamento dell'attività produttiva». Le parole pronunciate dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, hanno il merito di sintetizzare con rara efficacia il fattore che più sta condizionando l’economia: una diffusa incertezza.
Dalle guerre – quelle sul terreno e quelle commerciali – alle crescenti tensioni politiche, il serbatoio che alimenta il clima di precarietà è ahimè particolarmente capiente. Su questo fronte c’è poco da aggiungere e anche il livello di consapevolezza generale può dirsi in larga parte condiviso.
Il percorso si fa molto più accidentato quando ci spostiamo dal piano delle analisi a quello delle conseguenze e, ancor più, a quello delle possibili ricette per contenere o ridurre i pericoli dell’instabilità, quella patina di oscurità che complica il cammino – di un’azienda, di un gruppo, perfino di un Paese – e rende imperscrutabile l’orizzonte.
Immaginiamo che cosa significhi rivestire con il mantello dell’insicurezza l’oggetto del progetto Top 100 che il nostro gruppo editoriale Nord Est Multimedia organizza insieme a Pwc. È un rapporto di grande utilità, perché non va inteso come una semplice classifica, piuttosto come la fotografia dello stato di salute di un territorio, dal quale anno dopo anno emergono cambiamenti, tendenze, punti di forza e fattori di debolezza. Aggiungere la variabile incertezza su questa realtà significa elevare il coefficiente di difficoltà che accompagna ogni scelta, con chiare conseguenze per ogni singola azienda e, di riflesso, sulla capacità di un territorio di dimostrarsi competitivo.
A maggior ragione, poi, il discorso si carica di significato quando consideriamo l’aspetto che abbiamo messo al centro dei nostri incontri, ovvero l’esame delle prospettive per le imprese familiari. Leggete l’analisi di Marco Panara e immaginate di applicare al quadro che disegna con molta nitidezza l’elemento della precarietà: diventa subito comprensibile quanto possano risultare influenzate le scelte sul bivio tra possibili acquisizioni o apertura del capitale ad altri soci.
Se questa è la sfida, il buon senso consiglierebbe di non aspettare di venire travolti dall’onda, ma di attrezzarsi per arginarla. Fuor di metafora, un Paese dovrebbe mettere al riparo il proprio sistema produttivo compattandolo, offrendo protezioni da non intendere in senso restrittivo: cioè non altre barriere, ma condizioni migliori per ammodernare le strutture, innovare i sistemi produttivi, collegarsi di più al mondo della ricerca. Ovvero per capovolgere un momento di crisi in un’occasione di trasformazione.
Ma dal momento che in Italia vige ancora la regola di Ennio Flaiano – “La linea più breve tra due punti è l’arabesco” – è legittimo considerare per ora questo scenario come una speranza. Un po’ poco per chi è chiamato a scrivere bilanci e strategie pluriennali, ma conviene essere realisti.
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