Rumiz sveglia l’identità d’Europa: «Sia di coscienza, non sui nemici»
La serata con l’intellettuale viaggiatore al Festival città impresa di Treviso: «È più facile costruire l’identità sul nemico piuttosto che sulla coscienza di ciò che siamo»


Un mondo a porte chiuse. Un presente incerto e angosciante, un’Europa che balbetta e fatica a trovare un’unica voce per rispondere alle crisi profonde che la circondano e la investono. Nonostante tutto, l’invito è a non rinunciare alla ricerca di una via d’uscita da consegnare ai giovani, come una fiaccola di lotta o come una fiammella di speranza.
Il giornalista, scrittore, intellettuale e viaggiatore Paolo Rumiz, in un dialogo con Paolo Possamai, direttore editoriale del Gruppo Nem Nord Est Multimedia, è stato ospite di Città Impresa il Festival dei Territori Industriali che ieri sera ha riempito l’auditorium di Santa Caterina a Treviso.
Il luogo limite della frontiera
Perno della discussione, le storie che Rumiz ha raccolto nel luogo del limite: la frontiera. Un posto di passaggio, da raggiungere e superare. Una terra di nessuno che gli appartiene dall’infanzia. «Mia nonna ha vissuto un balletto di bandiere, io vedo passare profughi da Trieste fin da quando sono nato nel 1947, bussavano alle porte di casa nostra. Gente arrivata dall’Istria, croati, persone di lingua slava spinte alla fuga. Io sono figlio di questa frontiera e da allora la mia vita è stata un continuo rapporto con questo flusso di persone. Ho visto poi arrivare i curdi, i centroafricani, gli afghani, gli iracheni, ora anche i profughi del Bangladesh. Amo il mio confine».
Uno spazio vissuto per sessant’anni e divenuto un presunto souvenir nel 2007 con l’ingresso della Slovenia in Schengen. Seguendo la geografia, Rumiz continuerà a scriverne.
«Ci sono confini che appaiono e scompaiono, confini assassini come a Lampedusa, confini individuali. E poi ci sono i confini abitudinari. In tutti i casi, i confini sono luoghi dove accadono tante cose». Nel suo libro “Verranno di notte. Lo spettro della barbarie in Europa” (Feltrinelli) c’è il continuo andare di Rumiz fatto di passi e di incontri, tenendo la postura di un «europeista sul confine».
Ha raccolto le cronache di luoghi feriti come l’ex Jugoslavia e l’Afghanistan, ha assistito sul confine ungherese al crollo della Cortina di Ferro, ha avvertito la tensione tra Oriente e Occidente in tempi non sospetti. Ora il vento della destra xenofoba innalza i muri, nell’indifferenza generale. E ancora, Rumiz non smette di osservare ciò che accade sulla traiettoria che tocca Russia, Ucraina, Europa e Stati Uniti.
La disperazione del continente
Ma dov’è in questo momento l’Europa? «È più facile costruire l’identità sul nemico piuttosto che sulla coscienza di ciò che siamo. È più semplice affermare che siamo europei perché abbiamo un nemico alle porte che si chiama Putin, ed è molto più difficile dire chi siamo riflettendo sulle nostre radici che appartengono al mare Mediterraneo che però ha perso la sua essenza: non è più un amalgama di popoli ma è diventato una barriera» dice, riportandosi a pochi passi dal confine tra Italia e Slovenia tra ricordi e memorie.
«Dalla mia casa seguo i trenini di ombre che passano a Est, dai Balcani. Chi cammina lungo il valico ha le stesse speranze di chi arriva a Sud dal mare. Tutti i migranti cercano l’Europa molto più di quanto non la cerchino gli europei. Parlo della disperazione del Vecchio continente che non ha imparato nulla dalla lezione delle due guerre mondiali, che è ancora ostaggio delle nazioni e degli interessi particolari dei governi, mentre la politica gioca con le armi».
Permangono i confini, vero sismografo degli eventi globali ma anche il luogo dove i vivi posso scrivere il loro testamento alla patria. «Europa è il sogno di chi non ce l’ha. Noi europei non abbiamo mai speso una lacrima per questo nostro continente, pur essendo una delle terre più floride e fortunate del mondo. Dovremmo amarla e tenercela stretta».
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