Le possibili vie per la rinascita di Venezia
Come superare i limiti fisici e socio-economici e ridare forza all’unione di due non-città: quella d’acqua, pura quinta per turisti, e quella di terraferma che si è diluita oltre i confini
Tutti coloro che a vario titolo si interrogano sul futuro di Venezia vanno prendendo atto della previsione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) circa l’esistenza chiara e indiscutibile di nuovi “limiti fisici” ai quali va incontro Venezia e la sua laguna. Situazione peraltro non dissimile da quelle affrontate e superate dalla Serenissima nella sua storia millenaria di costruzione e ricostruzione dell’ambiente lagunare, con ardite deviazioni del corso di fiumi o costruzioni ciclopiche di lidi.
Anche questa volta siamo di fronte a limiti fisici, ineludibili, – come va da tempo ripetendo Andrea Rinaldo, il “Nobel dell’acqua” insignito dello Stockholm Water Prize 2023 – che ci dobbiamo attrezzare a superare per evitare che, se nulla verrà fatto, a partire da 70-100 anni – il lasso di tempo durante il quale, per nostra fortuna, città e laguna saranno protetti dal Mose – “Venezia marcisca, il porto non sia più agibile e la laguna sparisca”. È il Mose che ci regala il tempo necessario a fare qualcosa, per andare oltre quei “limiti fisici”.
Ma tra 70-100 anni quanti saranno, se ci saranno, i veneziani che potranno celebrare le forme post-Mose del superamento dei “limiti fisici? È domanda da porsi con altrettanta urgenza sapendo che al momento non c’è nessun Mose che protegga Venezia dal “limite socio-economico” per il quale, se nulla verrà fatto, la città storica, l’urbs medioevale contenuta entro le “mura” lagunari, verrà “liberata” ben prima della fine del secolo da ogni residente e da pressoché ogni altra funzione urbana diversa da quelle turistiche. Sulla popolazione residente, oggi ben sotto i 50.000 abitanti, incombe la sua età media elevata che la fa contrarre anche ad “esodo” annullato (saldo migratorio nullo).
Due questioni nodali
Sulle altre funzioni urbane, che oggi per fortuna continuano ad attirare una media di quasi 125.000 utenti diversi dai turisti (95.000 in media giornaliera) incombono l’ulteriore spiazzamento da rendita turistica e l’inaccessibilità relativa di Venezia storica. La rendita, che ha “convinto” imprese e amministrazioni pubbliche ad abbandonare sedi veneziane rese preziose dalla domanda turistica per trasferirsi “di là dell’acqua”. L’inaccessibilità relativa, prodotta da un sistema di trasporto pubblico locale che supera la cesura lagunare in modo ormai inefficiente.
Venezia insulare è, dunque, di fronte a un “limite socio-economico” che rischia di far implodere Venezia-Civitas ben prima che il “limite fisico” si abbatta sulla Venezia-Urbs. Problema che, per coloro, come chi scrive, non vorrebbe arrendersi a questo scenario, è reso più acuto dal fatto che la monocoltura turistica è del tutto compatibile con l’“esigenza” di conservazione tout court dell’urbs storica.
Alla manutenzione e conservazione del patrimonio edilizio veneziano il turismo può provvedere abbondantemente sia direttamente sia pagando tasse di soggiorno o ticket di accesso. Siamo di fronte a un limite socio-economico che, invece, per essere superato richiederebbe di far “funzionare” Venezia storica come parte di un solo, più ampio e più complesso, sistema urbano, fisicamente proiettato anche al di là delle “mura” lagunari. Una prospettiva che paradossalmente si gioca in gran parte in laguna.
La cesura da superare
È solo riconoscendo nella laguna una “cesura da superare” che si può ancora sperare di ridare forza all’unione di due, oggi, non-città, quella d’acqua che va riducendosi a pura quinta per i “foresti” e quella di terraferma che si è diluita oltre i confini amministrativi del comune di Venezia: occorre rileggere Venezia alla scala reale della sua auto-organizzazione che si estende oltre il comune di Venezia su almeno i quindici comuni dell’area urbana funzionale. È poi sul bordo lagunare di porto Marghera che si può rilanciare quel blocco produttivo –portuale, logistico, manifatturiero leggero che, assieme a quello (città Campus) di produzione delle risorse umane protagoniste dell’economia che dominerà il futuro, può riequilibrare e riportare su un sentiero positivo anche lo sfruttamento della rendita turistica.
Uno scenario che, per essere perseguito, ha bisogno di completarsi anche a una scala più ampia sia sul lato terra sia sul lato mare. Sul lato terra, l’area urbana funzionale di Venezia troverebbe nell’integrazione con le aree urbane funzionali di Padova e Treviso la dimensione che regalerebbe al Veneto e al Nord Est quel motore di sviluppo di scala metropolitana necessario per attrarre (in concorrenza con Bologna, se non con Milano) le attività innovative e le risorse umane talentuose della economia della conoscenza che sta già prevalendo anche “ibridando” la manifattura. Sul lato mare, lo sviluppo portuale in altura manterrebbe la competitività globale del blocco portuale-industriale di Marghera (alleggerendo la pressione ambientale sulla laguna) contribuendo alla creazione di quel “bene comune europeo” che è la portualità alto adriatica.
Uno scenario figlio di un modello di sviluppo che rifletterebbe le mutate esigenze della città e che avrebbe bisogno di venir validato da chi ha il diritto/dovere di rispondervi. Forse quel Comitatone, che riunendo Stato (il soggetto che meglio approssima anche le esigenze mondiali di conservazione del bene culturale Venezia), Regione ed Enti locali può comporre al meglio le preferenze eterogenee dei molti referenti, di diritto o di fatto, della questione. Un Comitatone che andrebbe sollecitato a prendere coscienza dell’urgenza di affrontare i problemi posti da entrambi i “limiti” ai quali è esposta Venezia.
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