Le suggestioni futuriste e la profezia che si autoavvera: Venezia è una bolla di sapone
L’obiettivo, e il sogno, è che venga rigenerata da progetti che attraggano giovani, studenti, coppie, bambini, vita stanziale. Non stormi di passaggio
E’ sicuramente difficile prevedere il futuro quando si ha a che fare con i sistemi complessi. Con Venezia ci provò la banda Marinetti, lanciando dalla torre dell’orologio in piazza San Marco, nel luglio del 1910, il volantino futurista contro la Venezia del passato.
C’era anche Luigi Russolo, da Portogruaro, uno de noialtri. Un musicista rumorista, per riassumerne l’arte, inventore dell’intonarumori. Il volantino era un manuale per smontare la città, come fosse una vecchia costruzione Lego, e rimontarla in altro modo. La Marinetti band qualcosa c’ha azzeccato.
Voleva Venezia industriale ed è successo, sia pure in terraferma, che è uno stato estero rispetto alla città storica. Fu un ciclo che si consumò in poco più di mezzo secolo, spinto prima dalle due guerre e poi dissipato dalle crisi mondiali.
La petrolchimica e l’alluminio evaporano in un tempo breve, benché i cantieri navali e la portualità resistano bene. La Venezia militare che domini l’Adriatico, gran lago italiano, fortunatamente non c’è stata e l’Adriatico, semmai, è dominato dalle navi da crociera e dal granchio blu.
I canali puzzolenti non sono stati riempiti, e nell’era Covid hanno mostrato una certa capacità rigeneratrice. La gondola, poltrona a dondolo per cretini, secondo Marinetti, gli è sopravvissuta e rende alla grande. Probabilmente il M.O.S.E., come marchingegno, sarebbe stato nelle corde dei futuristi, magari non lo avrebbero pagato così tanto, ma è sufficientemente spettacolare per la salvaguardia della città, la laguna che si arrangi.
Con un po’ di forzatura, potremmo dire che lo spirito futurista che ha impregnato Venezia l’ha condotta dov’è adesso. Roma, dal 1980 ad oggi, cala di 50.000 abitanti e Venezia di poco meno: bel risultato avere appena il doppio degli abitanti di Portogruaro, patria del rumorista Russolo.
Quindi non è stato un efficace anatema il ripudiare “la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo”. Venezia, oltre un secolo dopo il manifesto dei futuristi, è città proprio di forestieri. Essa ha come combustibile, oltre al gas e all’energia elettrica, il turismo.
Forse era inevitabile. I proclami futuristi avevano dei limiti intrinseci, erano puramente declamatori. Del resto il futuro è una bestia ribelle quando il passato affonda le radici su un’eccezionalità geografica e morfologica che permette la persistenza dei manufatti ma produce la rarefazione dei viventi, spinti dal modernismo, cioè dal futurismo applicato, a scappare altrove.
L’esercizio di immaginare il futuro è arte granda e, in effetti, assai più audace di quella che scandaglia il passato. Esigerebbe tuttavia una pletora di specialisti sul tempo che scorre, capaci di distinguere i progetti efficaci dalle cialtronate. Nessuno, lo si sa, riesce a sottomettere i processi di cambiamento economico e poi sociale. Pare che in laguna ci si debba arrendere: il passatismo dura più dei sogni futuristi.
Lo accettano persino le massime figure istituzionali, le quali tratteggiano la Venezia di oggi come un palcoscenico per uomini d’affari e grandi multinazionali: Venezia è il biglietto da visita internazionale d’Italia, il salotto buono per chiudere qualsiasi trattativa, anche diplomatica. Insomma, una città viva come lo sono le bolle di sapone: bellissime, fragili e da rifare costantemente.
Chissà come reagirebbe la Marinetti band a questo momento storico di Venezia; se considererebbe questa visione come risorto passatismo o invece una pragmatica versione futurista. Forse la banda si adatterebbe, un po’ frastornata dalle molte occasioni economiche, dagli ammiccamenti di qualche amico orientale o appagata dalla semplice considerazione che una passeggiata sulle Fondamenta degli Incurabili produce suggestioni maestose. Ne vale sempre la pena.
Anch’io sono stato una vittima, indiretta, del futurismo industriale di Venezia. L’intera famiglia di mia madre venne allontanata dalla Giudecca e incistata in un quartiere popolare a Mestre. E tutti quei parenti furono assorbiti dalle fabbriche. Soprattutto dai cantieri navali, dove finì anche mio padre e mio fratello. E il rumore delle fabbriche, quello politico e sindacale, ma anche culturale, è parte di me. Il mio combustibile.
Che mi fa sperare che qualche intelligenza aliena componga un nuovo manifesto futurista dove, sempre come un Lego, Venezia venga rigenerata da progetti che attraggano giovani, studenti, coppie, bambini, vita stanziale. Non stormi di passaggio. E non occorre nemmeno che siano dotati della retorica caratteriale del buon futurista, quella miscela di temerarietà, velocità, audacia, valida solo per gli influencer. E’ sufficiente che abbiano il buon senso di una comunità che vive in un posto irripetibile. Una nuova Venezia dentro la Venezia di sempre.
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